Duran Duran, "Paper Gods": la svolta sonora passa (anche) dalla dance
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Esce l'11 settembre il nuovo album del gruppo inglese. Tgcom24 lo ha ascoltato
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Arriva nei negozi l'11 settembre "Paper Gods", nuovo album dei Duran Duran. Dodici brani nella versione standard (tre in più in quella deluxe) per un lavoro che dal punto di vista sonoro rappresenta una nuova svolta nel percorso del gruppo, con brani fortemente dance e suoni sintetici. Molte le collaborazioni illustri: da Mark Ronson a Nile Rodgers, da Kiesza a John Frusciante.
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Musicalmente parlando gli anni 80 sono stati una brutta bestia, vituperati e poi riabilitati. Chi ha costruito il proprio successo in quel periodo al momento di realizzare un nuovo lavoro ha sempre il problema di decidere se affrancarsi dal proprio passato oppure adagiarvisi contando sull'effetto nostalgia. I Duran Duran, complici cambi di line-up, addii, ritorni e nuovi abbandoni, sono sempre stati refrettari alla stasi stilistica, cercando di volta in volta via nuove e al passo con le sonorità più moderne. A volte venendo premiati, a volte prendendo sonore facciate come nel caso di “Red Carpet Massacre” (2007). Un flop tale da convincerli, per la prima volta dal 1985, a non vergognarsi di rifare (o essere) se stessi e mettere in piedi, con l'ausilio di Mark Ronson, un album filologicamente corretto come "All You Need Is Now" (2010), assemblato con quasi tutti gli elementi che ne avevano caratterizzato il sound trent'anni addietro.
Se il successo di critica e pubblico di quel lavoro poteva far pensare a qualcuno che la band avrebbe proseguito su quella strada, beh, si sbagliava di grosso. “Paper Gods” fa un bel salto nel vuoto, da un punto di vista tanto sonoro quanto compositivo. Lavoro iper prodotto (curato dalla band stessa con la collaborazione di Mr. Hudson, Nile Rodgers, Josh Blair e Mark Ronson), il nuovo album è caratterizzato da suoni sintetici, con Roger Taylor che fa viaggiare le bacchette su una batteria elettronica i cui suoni possono intrecciarsi con le tastiere di Nick Rhodes, e John Taylor che si distrae sovente dal suo basso per suonare un synth bass e coprire la maggior parte delle linee ritmiche di chitarra. Il risultato può essere straniante ma se si sta al gioco, ascolto dopo ascolto l'album scopre tutte le sue carte migliori, che non sono poche. A partire dalla title track, che mette in chiaro sin da subito che qui si gioca su un campo inedito: un intro a-cappella dalle radici gospel, alternanza di affondi ritmati e aperture rarefatte, break strumentali e 7 minuti di durata. "All You Need Is Now" è già lontano anni luce. La ricerca di novità non sempre porta a risultati centrati: "Last Night In The City" è talmente orientata verso l'EDM che, pur con una melodia efficacissima, la riconoscibilità della band sbiadisce al punto che Kiesza da ospite rischia di diventare la protagonista, insieme a un Simon Le Bon in grande spolvero. Meglio allora la kitsch "Danceophobia", che pur restando nei paraggi del dancefloor, lo affronta con maggiore leggerezza e autoironia, con tanto di recitato di Linday Lohan. Ma se qui i problemi possono essere di forma, in "What Are The Chances" e "Sunset Garage" sono di sostanza: l'una per un ritornello trascinato che penalizza un brano costruito bene e impreziosito dalle parti di chitarra dell'ex Red Hot Chili Pepper John Frusciante e dagli archi di Davide Rossi (Goldfrapp, Coldplay). L'altra per il suo rifarsi a un Motown soul decisamente distante dalle corde duraniane.
Cadute di tono ampiamente superate dai momenti alti. Come "You Kill Me With Silence", una ballata elettronica dai toni scuri, insinuante e malinconica, e "Face For Today", più solare e trascinante, con un ritornello dal dna cristallinamente duraniano. In mezzo c'è il primo singolo "Pressure Off", che pur avulso stilisticamente dal resto dell'album resta un brano godibile grazie alla mano di due hit maker come Rodgers e Ronson. Ma il meglio arriva nel finale con "Only In Dreams" e "The Universe Alone", dove efficacia melodica e sperimentazione sonora trovano la giusta sintesi. La prima è un funky anomalo (per i Duran) che ricorda i Maroon 5 ed evoca tramonti losangelini, con uno dei ritornelli più ispirati dell'intero lavoro, mentre la seconda è una ballata dai toni decadenti alla quale Frusciante offre il suo contributo migliore. Un brano che si sviluppa in crescendo fino al collasso sonoro che lascia solo un coro di bambini fluttuare nel silenzio, quasi a chiudere il cerchio con l'attacco della prima canzone e a svelare il disegno complessivo di "Paper Gods". Un disegno coraggioso, affrontato su un terreno non privo di rischi, da una band che dopo quasi 40 anni di carriera e 14 album non si è stancata di mettersi in gioco.