L’attore è in scena al Manzoni di Milano il 16 aprile con “Sotto il vestito: Vernia”
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La gente lo conosce come il discotecaro un po' svalvolato Jonny Groove. E per molti altri personaggi comici. Ma Giovanni Vernia era destinato a tutt’altra vita. Come racconta in “Sotto il vestito: Vernia”, in scena al Teatro Manzoni di Milano il 16 aprile. "Ci saranno le maschere dei miei personaggi ma soprattutto me stesso" spiega a Tgcom24.
Giovanni è un ragazzo normale, nasce a Genova e proviene da una famiglia di origini meridionali. Il padre, maresciallo della guardia di finanza, gli dà un’educazione severa e i mezzi per studiare. Giovanni si laurea così a pieni voti in ingegneria e si trasferisce a Milano dove si avvia a una brillante carriera da manager. Tutto sembra andare perfettamente ma un giorno, quasi per caso, si trova catapultato nel mondo dello spettacolo: arrivano Jonny Groove e Marco Mengoni, Pif e Jovanotti... e la sua vita cambia… “Ero avviato a una vita normale, ero uno che doveva fare ogni giorno la fila in tangenziale per andare nel suo ufficio a fare l’ingegnere, e l’ho anche fatto per 10 anni”.
Quanto è stato difficile scegliere tra una vita sicura e il sogno?
Ci ho messo un anno e mezzo per decidere di lasciare il mio lavoro. A lungo ho fatto entrambe le cose, facevo le conference call per la mia azienda dai camerieri dello Zelig. Tieni conto che c’era anche la mia famiglia di mezzo: mio papà era un militare, un maresciallo della guardia di finanza. Posso lasciarti immaginare il feedback quando, lui che mi immaginava a Milano a fare l’ingegnere, ha scoperto tutto…
Come l’ha presa?
Diciamo che non l’ha presa proprio benissimo. Si è abituato con il passare del tempo. Alcuni personaggi, in particolare Johnny Groove, non li ha mai digeriti. Altre cose, per fortuna, gli sono piaciute molto.
Qualcuno ti ha aiutato a prendere la decisione?
Quelli di Zelig insistevano sul fatto che io potessi fare questo mestiere, ma io, da buon genovese diffidente, temporeggiavo. Chi mi ha dato il “La” è stata mia moglie. Nel momento di massima crisi, di fronte all’aut aut, quando rifiutavo le serate per fare altro. Lei mi disse: “Dai, basta. E’ sempre stato il tuo sogno: vai e fatti onore”. Da lì l’ho soprannominata Adriana, come la moglie di Rocky Balboa.
Adesso tutto questo è diventato uno spettacolo...
Sì, nel quale racconto me stesso e questa passione per far ridere che mi ha portato a stare davanti a milioni di persone. Racconta come sono e come mai sono arrivato all’improvviso in televisione. Io quasi mi vergogno a pronunciare questa parola ma è un “one man show”. C’è un maestro musicale con me, che è Marco Sabiu, che ha diretto tre Festival di Sanremo e il “Rock in mille”.
Quindi ti presenti senza le maschere dei tuoi personaggi?
La gente è abituata a vedermi travestito da qualche maschera. Nello spettacolo ci sono, ma sono soprattutto io. Basta una faccia, una posizione del fisico e una voce e il personaggio esce. Ce ne sono anche tanti nuovi.
Cos’altro deve aspettarsi chi verrà a vederti?
Faccio un po’ di ironia sulle nostre manie, tipo le serie tv, e quindi prendo personaggi da quelle, o da X Factor. E poi ragiono sul politically correct: oggi dobbiamo stare attenti a tutto ciò che diciamo. Ci sono canzoni che sono bellissime ma con le regole di oggi non si potrebbero più usare, tipo i “Watussi” di Edoardo Vianello. Come si potrebbe mai cantare degli “altissimi negri”? E poi gioco un po’ con il pubblico.
In che senso?
Non posso dire molto perché è una sorpresa, ma c’è un momento in cui la gente in sala viene coinvolta al punto di diventare inconsapevolmente autrice di un pezzo di musica dance. E’ tutto da vedere!