L'attrice parla per la prima volta della rara malattia che l'ha colpita qualche tempo fa, costringendola a due anni di calvario
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Isabella Ferrari si mette a nudo per "Vanity Fair". E lo fa in più sensi. Fisicamente, posando senza veli a 55 anni ("Non riesco proprio a sentirmi vecchia, anzi, mi sento completamente in pista, nel mondo, con la voglia di essere nuda, amata, desiderata) e spiritualmente raccontando per la prima volta della sua malattia. "Per due anni ogni mattina sono andata in ospedale, ho capito che non bisogna aver paura di morire è la paura di vivere a fregarti".
L'attrice è attualmente impegnata sul set di "Sotto il sole di Riccione", il film scritto da Enrico Vanzina e diretto da duo Younuts che in qualche modo per lei chiude un cerchio. "Non si può certo considerare un sequel di 'Sapore di mare' -spiega -. Però a me piace pensare che lo sia. Perché interpreto il ruolo che fu di Virna Lisi. E perché finalmente questa volta mi fanno fare la parte della vecchia. Una liberazione. Perché oggi sono più tranquilla. Sul set. Nella vita. In tutto".
Pur felice di interpretare "la vecchia" in un film, nella vita non si sente affatto tale, al punto di decidere di presentarsi spogliata per il servizio del settimanale. "È importante quello che è successo grazie al #MeToo. Ed è grandioso quanto sta accadendo nella nuova percezione del corpo femminile - tiene a precisare -. Ma va fatto un distinguo, perché io rivendico il mio corpo come oggetto del desiderio. E nessuno può né deve dirmi quello che devo o posso fare col mio corpo".
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Corpo che può essere oggetto di desiderio ma anche fonte di dolore. Come racconta per la prima volta dopo il calvario vissuto qualche tempo fa. "Qualche anno fa succede che una mattina mi sveglio e non riesco più a muovere le gambe - dice -. Tutto è precipitato in fretta. Inizia il calvario delle visite e delle diagnosi. E le diagnosi si dimostrano sempre sbagliate, anche quelle fatte da medici e ospedali stranieri. Vado all'estero, mando il mio sangue per esami negli Stati Uniti. Poi arrivano i dolori accecanti, il cortisone. Una notte, era il 2 giugno, mi ricoverano in un ospedale vicino a casa, a Roma. Lì incontro il medico più importante per me. La diagnosi che fa non è per niente buona. Mi perdoni, ma non farò il nome di questa malattia rara perché appena l'hanno fatto a me sono andata su Internet, ho digitato la patologia e mi sono spaventata. Insomma, il medico suggerisce una terapia importante e pericolosa, qualcosa che poteva funzionare solo in una percentuale di casi. Io decido di non farla e parto per Pantelleria".
Il destino però la segue. "Ero lucidissima, quell'estate, per via delle dosi di cortisone. Dipingevo, mi sentivo molto illuminata e ogni tanto provavo a preparare al peggio i miei figli. Poi la situazione peggiora, mi riportano a Roma d'urgenza e inizio la terapia. Ogni mattina, per due anni, sono andata in quell'ospedale. E quando non potevo muovermi, dal letto della struttura chiamavo i miei figli via Skype per restare ancorata a loro e alla vita. Piano piano, un passo alla volta, ce l'abbiamo fatta. Ed eccomi di nuovo in pista, appunto. (...) Ho avuto tanta paura di vivere quando avevo vent'anni. E mi sono fatta venire pure gli esaurimenti con la depressione. La recente malattia, pero', mi ha fatto capire che non devi avere paura di morire. Perché è la paura di vivere a fregarti. Solo quella. Soltanto quella".