Venerdì 30 novembre il duo libanese/canadese sarà a Milano per un evento all'ex cinema Aramis Striptease, organizzato da Threes & Buka
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A tre anni dal disco "If He Dies If If If If If If", sono tornati i Jerusalem In My Heart, progetto onirico musicale e visuale del producer libanese Radwan Ghazi Moumneh e del filmmaker canadese Charles-André Coderre. A ottobre il duo ha dato alle stampe il terzo lavoro, "Daqa’iq Tudaiq" sull'etichetta cult Constellation. All'interno del tour italiano giungeranno a Milano venerdì 30 novembre nell'affascinante ex Cinema Aramis Striptease, per un evento organizzato da Threes e Buka, due realtà vivide nel capoluogo lombardo. La prima produce eventi site specific come Terraforma e Tranceparenti, tra ricerca e sostenibilità artistica e territoriale, mentre la seconda organizza feste alternative notturne e pomeridiane. Nella serata, oltre a JIMH, saranno protagonisti anche il dj set a stelle e strisce di Ron Morelli, oltre a Paquita Gordon e Joseph Tagliabue.
Jerusalem in my Heart è una sinergia tra immagini e suoni, una fusione di musica tradizionale e moderna, sia araba che occidentale che guarda al futuro attraverso un'estetica nuova e a un continuo espandere gli orizzonti. L'ultimo disco è un altro tassello della potenza della loro proposta all'avanguardia della musica contemporanea, imperniato su voce, elettronica, buzuk e altri strumenti.
Nelle performance dal vivo le sonorità si intrecciano magicamente con il lavoro analogico su pellicole 16mm e diapositive 35mm del filmmaker Charles-André Coderre che crea moderne forme di trascendenza.
Tgcom24 si è fatto raccontare il loro impianto ideologico e musicale.
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Qual è il significato del nome Jerusalem in my Heart? E' politico?
Gerusalemme per me è un posto che può esistere solo nel cuore, o nello spirito, e non nel reale tangibile a causa della situazione politica e il perenne stato di guerra che va avanti tra Libano e Israele.
Mischi tradizione araba ed elettronica occidentale. Passato e presente diventano un unicum temporale?
Non lo intendo come un "passato e presente", ma piuttosto come una texture e un'estetica che alle mie orecchie suonano davvero bene. E di certo non la vedo come "est" e "ovest", dato che questi termini politicizzano la musica in un modo che personalmente non capisco. Sarebbe come dire "tradizione occidentale" ed "elettronica orientale".
Raccontaci questa particolare sinergia tra immagini e suoni che proponete dal vivo?
Il progetto è un'installazione e in un contesto live cerchiamo di renderlo il più possibile un'esperienza per gli spettatori. Molteplici immagini anlogiche in movimento si uniscono alla musica per presentare un'esperienza, durante la quale invitiamo il pubblico a farsi trasportare nel piccolo viaggio che proponiamo. Uno non può esistere senza l'altra componente in maniera completa.
E' uscito il terzo album “Daqa’iq Tudaiq”. Qual è il significato del titolo e di questo nuovo lavoro?
Il titolo si traduce nel momento che viviamo proprio ora, che ci opprime e ci fa sentire profondamente a disagio. E' un riflesso di questo momento, visto lo stato in cui si trova il mondo e in particolare la zona del Mediterraneo.