Il 29 novembre del 1969 usciva negli Stati Uniti l'album che idealmente chiudeva il sogno di un decennio
di Andrea Saronni© IPA
Chissà chi l’ha trovato un rifugio, e chissà quanto ci ha messo. O chi proprio non l’ha trovato, e sono 50 anni che viene minacciato dagli eventi, dalla vita. Oppure non c’è più, proprio perché non è riuscito a raggiungerne uno. In un rifugio assoluto, totale, anche dalla minaccia più ineluttabile, vale a dire il tempo che passa, si sono infilati proprio loro, i Rolling Stones. I Rolling Stones che il 29 novembre 1969, mezzo secolo secco fa, pubblicavano negli Stati Uniti un album definitivo, per loro, per il rock, soprattutto per un’era culturale e sociale di cui quel disco rappresentava una vera e propria sigla finale. “Let It Bleed”, lascia che sanguini.
Un titolo, raccontava ai tempi chi insisteva a fumettare sulla rivalità con gli ormai moribondi Beatles, che voleva essere uno sberleffo ai dirimpettai di Liverpool, che avevano già sviluppato, ma non ancora dato alle stampe, il canto del cigno "Let It Be". Per carità, magari il sardonico Mick Jagger ha giocato pure su quello. Ma "Let it Bleed" sanguina veramente. A partire dalle prime note, dal primo pezzo, da quell’invocazione, da quella inattesa richiesta di aiuto, di ammissione di incertezza, di paura ancora prima che di rabbia per ciò che stava accadendo fuori dalla porta di uno studio di registrazione, o dal cancello di una lussuosa residenza della campagna inglese. “Oh, una tempesta sta minacciando la mia stessa esistenza, oggi. Se non trovo un rifugio, sì, verrò spazzato via”.
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Per tanta gente, fan incalliti e no, "Gimme Shelter" è il più grande pezzo dello smisurato catalogo degli Stones; certamente è il più significativo, profondo, una instant song perfetta dell’ultimissimo pezzo degli anni 60, e della loro fine inquietante, con già proiettate le ombre scure del decennio a venire. Ad agosto Woodstock, come un tempo supplementare della generazione hippy, dell’ “estate dell’amore”: ma il 1968 era già transitato forte, e addio al volemose bene, con i bombardamenti sul Vietnam riprodotti dalla chitarra di Jimi Hendrix nella sua drammatica reinterpretazione dell’inno americano, e la cultura della droga che aveva già soppiantato quelle sostenibili del sesso libero e del flower power, dai fiori tra i capelli alle siringhe nelle braccia. I Rolling Stones, rimasti volutamente e sapientemente fuori dalla porta di quei movimenti, erano conseguentemente diventati il punto di riferimento dell’ampia parte di pubblico giovane che aveva scavalcato la staccionata, vuoi quella della contestazione politica e sociale, vuoi quella salita al nuovo livello di sfida e di affermazione di lontananza dal conformismo e dalle mode, i ribelli con o senza causa.
Per talento, poesia, genio musicale e lirico, Jagger non poteva certo dirsi all’altezza di suoi coevi come Lennon, McCartney, Dylan: ma come fotografo capace di inquadrare ciò che lo circondava, e tradurlo in musica con una rappresentazione cruda e a volte cinica, Mick era inarrivabile. Già l’anno prima, il rosso 1968, nel seminale "Beggar’s Banquet" il leader delle Pietre si era vestito da Lucifero ("Sympathy for The Devil"), studente sulle barricate ("Street Fighting Man"), cantore del proletariato ("Factory Girl" e "Salt of the Earth") portando a sé le teste - quasi tutte - più inquiete. Nel tardo 1969, nel quadro enunciato qualche riga sopra e alla fine di un anno folle a cavallo tra la vita e la morte (di Brian Jones, e quasi di Marianne Faithfull, la donna di Jagger), si passa alla voce ora affannata, ora spietata, ora immersa nelle cose sbagliate a raccontare il lato oscuro del mondo, prima che altri, qualche anno dopo, si occupassero di quello della luna. E allora ecco l’assolo vocale stridente, angosciato del soprano Merry Clayton che urla nell’apice di "Gimme Shelter" che lo stupro, l’omicidio, la guerra sono a un tiro, poi le efferatezze di Robert De Salvo, il "Midnight Rambler", lo strangolatore seriale che terrorizzò Boston, e ancora Mick Jagger che si definisce “uomo in mezzo alle scimmie, e tutti i miei amici sono dei tossici” prima di urlare al mondo che pure lui e la sua donna sono diventati delle scimmie, ormai. Fosse già esistito all’epoca, altro che il bollino “explicit lyrics”. Anche se qui più che una questione di parole, è una questione di stato d’animo, di irrequietezza, di demoni che solo alla fine della corsa Jagger, Richards e soci decidono di esorcizzare con un pensiero più alto, etereo, di accettazione, un addio incorniciato in una melodia semplice quanto immediata, un arrangiamento e un titolo, soprattutto, che toccano una corda universale, che non ha riferimenti ed età.
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Nel suo strano - figurati - testo, gli accenni alla droga sono ancora presenti, ma "You Can’t Always Get What You Want", gioiello reso ancora più prezioso dal London Bach Choir, supera nel suo messaggio qualsiasi sottinteso scomodo: non puoi sempre avere ciò che vuoi, ma se ci provi, a volte, otterrai quello di cui hai bisogno. È davvero una sigla finale perfetta dei 60's, anzi, lo sarebbe. Perché invece l’ultimo frame è nero, il decennio dei sogni, delle rivoluzioni del pensiero, del costume e del progresso sociale documentato da centinaia di grandi canzoni muore di morte violenta. "Let it Bleed" esce nella madrepatria Uk e anche in Italia il 5 dicembre 1969; il giorno dopo, nel circuito californiano di Altamont, il grande concerto gratuito offerto dagli Stones come appendice del loro grande tour americano si trasforma in un vortice di violenza cieca e insensata, benzinata dai fiumi di droga e di alcol. Meredith Hunter, 18 anni, viene accoltellato a morte da un Hell’s Angel, ufficialmente lì per gestire la sicurezza. Aveva una pistola, Meredith, e qualcuno racconterà e racconta che la stava per puntare a Mick Jagger, sgambettante su un palco che è la pura rappresentazione del caos. Ė un omicidio figlio della totale pazzia, di agghiacciante efferatezza. Verrà mostrato nel film-documentario che racconterà quella tournée, quell’ultimo tuffo tentato, ma sbagliato, fuori tempo, nello spirito dei Sixties: "Gimme Shelter", si chiama, titolo obbligato. Sei giorni dopo, a Milano, la bomba di Piazza Fontana: ciao innocenza, ciao boom, pronti per gli anni di piombo. Serviva subito un rifugio, a tutti. Alcune scene del film ritraggono gli Stones in studio, dopo Altamont, i fratelli Maysles, autori della pellicola, stanno mostrando alla band le sequenze che documentano l’assassinio avvenuto davvero a un tiro, come presagito dall’inno appena partorito. L’incantesimo era terminato, la carrozza era tornata zucca. E Mick Jagger, apparentemente fatto, apparentemente assente, è invece l’interprete in tempo reale di un’inquietudine, di un immediato rimpianto per qualcosa che è definitivamente passato: e fa al regista una richiesta che riassume quelle di milioni di bipedi in tutto il pianeta che stanno per finire in balìa dei terribili Settanta. “Puoi mandare indietro il nastro?”
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