L'INTERVISTA A TGCOM24

Makaya McCraven, oltre il jazz per ridisegnare il presente del suono

Per la preview dell'ottava edizione di JazzMi (12 ottobre - 5 novembre), il musicista arriva il 20 luglio alla Triennale di Milano. L'intervista a Tgcom24

di Luca Freddi
20 Lug 2023 - 11:16
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Il jazz è l'incrocio. Tra le vie della tradizione, della contaminazione, del rinnovamento, della contemporaneità. Siamo a Chicago, Makaya McCraven è lì a quell'incrocio con tutte le direzioni nelle sue mani, di batterista e di producer. Un protagonista di questo tempo capace di valicare i confini del genere senza dimenticare le radici. Il ritmo, lo spazio, il tempo sono i cartelli segnaletici che si possono trovare sul suo percorso. Dinamismo, poliritmia, ritmi hip hop, post rock figlio dei Tortoise, beat, loop si conciliano, stratificati, onirici, armonici, densi, in quell'incorcio. Proprio lì, in questo momento. Il suo momento. "In These Times" è il suo ultimo disco in ordine di tempo lungo un'evoluzione partita nel 2015 con "In the Moment", in un ricco catalogo in cui ridisegna passato, futuro e presente del suono. E il gusto nel dare nuova vitalità al jazz. A Tgcom24 ha raccontato le influenze e il suo modo di fare musica, della città americana dove ha trovato la sua strada artistica, anche grazie alla International Anthem.

L'appuntamento per JazzMi

  Per la preview dell'ottava edizione di JazzMi (12 ottobre - 5 novembre) il percussionista, compositore e produttore di stanza da anni a Chicago (ma nato in Francia da genitori musicisti) arriva il 20 luglio alla Triennale di Milano proprio per presentare l'ultimo album, pubblicato dalla International Anthem.

L'album

 "In These Times" è una raccolta di composizioni ispirate alle lotte culturali e l’esperienza personale di McCraven come prodotto di una comunità multietnica di musicisti, ed è l’opera a cui ha lavorato per oltre sette anni mentre produceva una serie di album che hanno tracciato il suo percorso musicale: "In The Moment" (2015), Highly Rare (2017), Where We Come From (2018), Universal Beings (2018), "We’re New Again" (2020), "Universal Beings E&F Sides" (2020) e "Deciphering the Message" (2021).

Il sound unico

  Il disco vede il contributo di oltre una dozzina di musicisti e partner creativi della sua cerchia di collaboratori, un ensemble non a caso eterogeneo (tra cui Jeff Parker, Junius Paul, Brandee Younger, Joel Ross e Marquis Hill), mentre la musica è stata registrata in cinque studi diversi e quattro spazi per concerti, a cui si è aggiunto l’ampio lavoro di post-produzione fatto da McCraven a casa. Caratterizzato da arrangiamenti orchestrali intrecciati al suono della organic beat music che è diventato la sua firma, l’album è un’evoluzione e un punto di arrivo per Makaya McCraven. Il suo è un sound unico che mescola, si muove brillantemente tra i generi dilatando i confini del jazz, che è usato come presupposto e che allo stesso tempo viene trasceso.

Sei da sempre un artista refrattario a generi ed etichette. Con un padre jazzista e una madre cantante folk chi ti ha influenzato all'inizio? Cosa ascoltavi quando studiavi musica?
Nei miei anni alla scuola di musica ascoltavo di tutto, Mahavishnu Orchestra Miles Davis e cose che mi passavano mio padre e mio fratello Chris. Come anche i Wu-Tang Clan. Al college ascoltavo un po' di jazz contemporaneo come Dave Holland Quartet, Joshua Redman, Brian Blade.

Il tuo arrivo a Chicago è il punto di partenza di un percorso musicale figlio di quella città. In "In the moment" si sente l'influenza di quel substrato post rock jazz dei Tortoise. Che ruolo ha la città e il suo suono (se c'è) nei tuoi dischi?
Trasferirmi a Chicago mi ha influenzato enormemente. Ho trovato musicisti con cui suono tutt'ora come Junius Paul e Marquis Hill. E' stato anche un posto dove incontrare giovani musicisti neri della mia età che possedevano un vocabolario della musica d'avanguardia, hip hop e jazz. Io venivo dall’Università del Massachusetts con maestri come Archie Shepp e Marion Brown e trasferirmi a Chicago è stata una sensazione incredibile. Qui ho trovato la mia strada e ho portato la mia carriera a un livello superiore.

La tua etichetta, la International Anthem, sta delineando attraverso i suoi (e i tuoi) dischi un nuovo panorama jazz in evoluzione. Raccontaci la comunità artistica in cui cui vivi e le persone con cui suoni che mi sembrano molto eterogenee.
La International Anthem tiene sotto la sua ala e rappresenta il sound di Chicago, in particolar modo quello dei giovani musicisti. Loro hanno fatto un lavoro incredibile dandoci un'opportunità e una piattaforma per suonare la nostra musica. Il loro obbiettivo è supportarci e sono loro grato per quello che hanno fatto.

Hai rimesso al centro del jazz l'attitudine alla contaminazione, mischiando la tradizione e l'improvvisazione con le dinamiche contemporanee. Oltre a essere un batterista sei anche un produttore. Qual è il peso e l'importanza nei tuoi dischi della post produzione, l'uso del sampling e il lavoro in studio?
Il jazz è sempre stato un incuriosito da altri generi musicali e si è sempre incrociato con altri. Per me fare sampling vuol dire sfruttare la tecnologia. Ritengo che anche solo la batteria sia stata un punto di svolta e un grande inizio per la musica che chiamiamo jazz. Come artista voglio interagire con il mondo contemporaneo musicale e includere questo in tutto quello che faccio. Questo modo di pensare mi ha portato al mio stile di produzione, di fare musica e registrare.

Il ritmo è centrale nella tua produzione. Ci sono connessioni tra la tua musica e l'hip hop?
La mia musica è decisamente connessa all'hip hop perchè parte della musica della disapora nera americana. Il jazz ha sempre influito sull'hip hop e sul sampling fino ad arrivare a oggi che è il contrario. I musicisti jazz delle ultime generazioni, incluso me, sono influenzati dall'hip hop, come dall'elettronica e dal rock'n'roll. Io cerco di essere influenzato da tutto quello che mi circonda, dal passato e dal presente, guardando al futuro. 

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