USCITA LA SUA BIOGRAFIA

Mauro Repetto, c'erano una volta gli 883: "Guardo sempre al futuro e faccio un pensiero a Sanremo"

Dopo trent'anni di silenzio l'ex compagno avventure di Max Pezzali ha raccontato la sua vita nel libro "Non ho ucciso l'Uomo Ragno". Tgcom24 lo ha incontrato

di Massimo Longoni
03 Ott 2023 - 09:23
 © Mauro Repetto

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Per anni Mauro Repetto è stato un mistero. La metà degli 883 che al culmine del successo, nel 1994 dopo l'album "Nord Sud Ovest Est", aveva lasciato il gruppo sparendo nel nulla (o quasi). Adesso, dopo trent'anni, ha deciso di raccontare la sua storia in "Non ho ucciso l'Uomo Ragno" (Mondadori), un libro scritto con Massimo Cotto in cui emerge la figura di un visionario che non ha mai avuto paura di mettere tutto in discussione pur di inseguire i propri sogni. Ieri come oggi che, dopo la pubblicazione del libro, è tornato carico di progetti nuovi. 

Fotogallery - Mauro Repetto oggi, trent'anni dopo l'avventura con gli 883

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© Mauro Repetto
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Come mai, dopo tanti anni di silenzio, è arrivato il momento giusto per raccontare la tua storia, la tua versione di ciò che è accaduto?

E' stato proprio un caso. Avevo voglia di mettere in ordine la mia cameretta con i "giocattoli" un po' impolverati per comprarne degli altri, quindi dei nuovi ricordi, chiaramente. E così facendo ho scoperto che non erano poi così impolverati, mi faceva ancora piacere giocare con loro, erano quasi gradevoli. Così mi è venuta voglia di giocarci di nuovo. In quel mentre ho incontrato il primo regista dei video degli 883, Stefano Salvati, che mi ha ridato voglia di buttare giù delle idee qui in Italia, mi ha presentato Massimo Cotto che mi ha detto "sei veramente rock'n'roll, possiamo fare un libro". Io ho accettato e come un fiume in piena in due giorni ho buttato giù tutti i ricordi che avevo.

E' interessante il modo in cui definisci i ricordi e i momenti della tua vita come "giocattoli", è esemplificativo del tuo atteggiamento verso la vita, sempre giocoso di fronte a ogni esperienza. 

Per me è normale affrontare le cose sempre come un fossero una partita, consapevole che non si può sempre vincere. Un po' come l'Olanda di Johan Crujff: crei tante azioni da gol e prima o poi due o tre palle le metti dentro. Non importa se subirai anche un paio di gol, perché sicuramente puoi farne uno in più per vincere. Il mio spirito sportivo non è decubertiniano, ok partecipare ma io voglio vincere. Però mi rendo conto che serve anche per passare il tempo, quindi ho un'attitudine diciamo di piacere rispetto alle sfide che mi si propongono.

In questa tua attitudine rientra anche il modo in cui trent'anni fa sei sceso da una macchina in corsa che stava vincendo la sua gara, quella degli 883, per andare a cercare altro?

Avevo voglia di fare qualcosa anche in America. Adesso può sembrare folle perché il sogno americano non esiste più ma all'epoca eravamo veramente colonizzati culturalmente dalle canzoni. Era una figata immaginare di vivere nel Greenwich Village, a Tribeca, a New York o a Beverly Hills. E ci ho provato e ci ho vissuto un po'. Diciamo che è stata la necessità di realizzare i miei sogni e non i sogni di un altro: ho seguito la linea del destino che leggevo sul palmo della mia mano e ho fatto quello che volevo.

L'America tra l'altro, da "Hanno ucciso l'Uomo Ragno" a "Nord Sud Ovest Est", aleggiava già nelle vostre canzoni...

Esatto,  eravamo veramente permeabili alla cultura americana. Era una cosa che veniva dal dopoguerra, da Alberto Sordi e "Un americano a Roma" per arrivare a noi passando per Renzo Arbore. Era un'aria che respiravamo quotidianamente a livello di cultura, vestiti, musica, cinema. E non dimentichiamoci la bellezza delle metropoli che vedevi in ogni film, in ogni clip. Quindi per me è stato normale cercare di partecipare a questo sogno americano almeno per un po'.

© Ufficio stampa

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Nel libro racconti che un bel giorno, al culmine del successo degli 883, hai detto a Max Pezzali: "Io voglio di fare un salto a Miami, non so se torno". E lui fedele al suo modo di essere ti ha risposto "ok" senza battere ciglio. 

Sì, lui è sempre stato capace di razionalizzare tutto. Per farti capire ti racconto un episodio di quando andavamo al liceo. Alla lavagna, la professoressa di matematica interrogava Max su certe equazioni e lui non sapeva nulla. Lei ha un certo punto gli fa "Pezzali, ma quante persone staranno calcolando questa semplice equazione adesso qui in Italia?". E lui serafico ha riflettuto un po' e le ha risposto calcolando veramente quante persone potevano essere, prendendo in considerazione quanti licei potevano esserci in Italia... Perché lui è comunque sempre molto razionale. 

Tu invece incarnavi la parte folle della coppia?
Assolutamente sì, nel senso che non avevo limiti, come del resto non li ho neanche adesso. Non mi ponevo nessun problema a cercare degli obiettivi irraggiungibili. Come quando sono volato a Los Angeles nel tentativo di conquistare Brandy, una ragazza che avevo visto a una sfilata e che consideravo la più bella del mondo, o quando cercavo di farmi notare da Claudio Cecchetto portando le nostre cassettine a Radio Deejay. Un obiettivo l'ho mancato, l'altro l'ho centrato, ma erano due obiettivi comunque molto molto ambiziosi.

Max ha reagito come se nulla fosse, ma nessuno ha provato a fermarti? Nemmeno Claudio Cecchetto?
Non gliene ho data la possibilità, sono sparito dall'oggi al domani. Ho preso l'aereo il giorno dopo e sono andato a Miami. All'epoca non c'erano cellulari come oggi e non eri rintracciabile 24 ore su 24. Ed è affascinante perdersi senza lasciare tracce, perché quando cominci da zero non puoi guardare il passato. Comunque poi Cecchetto mi ha rintracciato quando sono andato a Los Angeles, mi chiamava in hotel e mi diceva di tornare subito. Sia lui che mio padre hanno cercato di rimettermi "sulla buona strada", ma io avevo la mia linea del destino da seguire...

Una volta arrivato negli Stati Uniti quella linea dove ti ha condotto?

Appunto da Miami a Los Angeles, inseguendo il sogno di mettermi con Brandy, e poi a New York dove ho avuto la possibilità di fare un disco con la mitica Def Jam Records, l'etichetta dei Run DMC. Questa occasione mi si presentò grazie a Beverly, una modella amica di Brandy, che era molto amica di Russell Simmons, il grande tycoon della Def Jam. Il ragazzo di Beverly aveva un gruppo rap e io entrai in studio con loro per fare un disco rap in inglese.

E che fine ha fatto quel disco?

E' finito nella spazzattura, per motivi che con la musica centrano poco. Infatti un bel giorno Beverly ha tradito il suo ragazzo che per tutta risposta l'ha picchiata. Russell Simmons quando ha saputo la cosa, in solidarietà alla sua amica Beverly, ha tolto tutto il supporto della casa discografica oltre a fare in modo che Jeff fosse considerato persona non gradita in tutta New York. Così io mi sono preso il mio album e sono tornato in Italia dove l'ho concluso da solo, con i testi in italiano, facendolo diventare "Zucchero filato nero", il mio unico album solista uscito nel 1995.

Non esattamente un successo...

Diciamo pure un fallimento totale. Ma sono stato contento finisse così. Quell'album era una figata estrema in inglese, in italiano aveva meno senso e in più non ero preparato e non avevo lo stato d'animo per cantare questi brani. E così è tramontato il sogno americano e anche in Italia non c'erano più grandi prospettive per me.

Ma in quel momento non hai pensato a tornare con Max e gli 883?

Nemmeno per un minuto! Io ero veramente un fiume in piena che, come sai, non può cambiare il suo corso, guarda solo davanti a lui. Volevo anzi ricominciare da zero più che mai, nel senso che era il momento veramente di fare tabula rasa di tutto, diventare quasi un fantasma, diventare uno che doveva rifarsi una vita, quindi non potevo tornare indietro.

E da dove hai deciso di ripartire?

Da Parigi, una metropoli che mi era sempre piaciuta come Londra, New York, Los Angeles, Milano o Roma. E lì ho ricominciato davvero da zero. Ho trovato un lavoro grazie a mia madre che lavorava all'ufficio di collocamento di Pavia. Aveva ricevuto dalla Disney richieste per qualche italiano che andasse a lavorare là e siccome ci teneva che io avessi un lavoro stabile, ho accettato di presentarmi al colloquio. Non ho detto che avevo trascorsi nella musica, nessuno mi conosceva, mi sono presentato come un ragazzo con una laurea in lettere. E loro mi hanno preso per fare... il cowboy a Frontierland, la zona a tema western di Disneyland Paris. 

Se non è ricominciare da zero questo...
Ma io ero contento. E per anni mi sono goduto uno stile di vita, come dicono i francesi, "metro-boulot-dodo": metropolitana, lavoro e dormire. Nel frattempo mi sono sistemato a Parigi, nel quartiere della Bastiglia, dove abito ancora adesso. Però un bel giorno un dirigente italiano della Disney mi ha riconosciuto e ha voluto che iniziassi a lavorare nel dipartimento più bello della Walt Disney Company, a "Business Solutions", dove sono ancora attualmente e dove faccio l'event executive: organizzo eventi con milioni di dollari di budget, un lavoro che mi piace, tra produzione e entertainment.

Però sei uno che non si ferma mai. Adesso cos'hai in programma?
Intanto, a partire dalla primavera del 2024, il libro diventerà uno spettacolo teatrale che porterò in giro in tutti i teatri d'Italia. Una sorta di "one man show" innovativo, in cui canterò, suonerò la chitarra e racconterò la mia vita tra Fantozzi e Johnny Depp, con la regia di Maurizio Colombi e Stefano Salvati.

Quindi in qualche modo torni anche alla musica?

Sì, ma non solo con lo spettacolo teatrale. Ho un pezzo che mi piacerebbe portare a Sanremo. Lo sto ultimando in questi giorni e tutti mi dicono che è un bellissimo pezzo. Vedremo, perché a me piace, ma ovviamente deve piacere ad Amadeus e a chi sceglie le canzoni. E poi ho un progetto in ballo con Robert Watts, leggendario produttore di "Star Wars" che ho conosciuto durante un evento Disney. Si è innamorato di un'idea che ho per una serie che si chiama "Bad Crossfit" e vorrebbe aiutarmi, ma è una cosa per cui ci vogliono davvero milioni di dollari.

© IPA

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Gli 883 con Fiorello e Jovanotti

Tra tutti questi progetti, dopo la reunion durante il concerto di Max a San Siro dell'anno scorso, non ti è venuta voglia di fare ancora qualcosa come 883?

Tutti e due non appena abbiamo un'occasione sghignazziamo insieme senza problemi, ma entrambi non siamo persone da calzascarpe. Mi spiego: tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto come passatempo e come voglia di divertirci. Mai potremmo fare una cosa cercata, studiata a tavolino. Quindi se dovesse capitare di trovarci in qualche situazione è sicuro che ci divertiremo assieme. Però per fare qualcosa  tipo una nuova canzone, dovrebbe essere una situazione davvero spontanea e causale. Perché non abbiamo mai voluto, né potuto, essere colleghi, eravamo proprio solo amici. 

Nonostante il tuo guardare sempre avanti, in questi anni c'è qualcosa di quella stagione degli 883 che non hai più ritrovato in nessun'altra esperienza?

Sicuramente se c'è qualcosa che mi è mancato è stato Max. E' la persona più interessante che abbia mai conosciuto. Quando dico interessante intendo dire che è uno che con dei discorsi può portarti veramente a viaggiare con qualunque fantasia, come abbiamo sempre fatto fin dai tempi del liceo.

Ma in tutto questo tempo non siete rimasti in contatto?

Non siamo come il nipotino che deve chiedere allo zio, "come stai zio?". Non avrebbe nessun senso, siamo amici, siamo stati veramente quasi una persona sola. Con un grande amico, con una grande passione, un grande amore, non ha senso dire come stai? Se il caso vuole, ti vedi, ti perdi negli occhi di lui e sghignazzi, ma se no non cerchi una cosa così in maniera forzata.

Mauro Repetto

NON HO UCCISO L'UOMO RAGNO - Gli 883 e la ricerca della felicità

Mondadori

ppgg 168, 18 euro

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