La band californiana torna a otto anni da "Death Magnetic" con un lavoro corposo
di Massimo LongoniArriva nei negozi "Hardwire to... Self-Destruct", nuovo album dei Metallica. Anticipato dai singoli "Atlas, Rise", "Hardwired" e "Moth Into The Flame", è il primo album di studio della band california dal 2008, anno di pubblicazione del multiplatino "Death Magnetic". Dodici brani su due dischi (tre nella versione deluxe con un bonus cd contenente i riff che hanno originato il disco).
Per arrivare a questa uscita il percorso è stato piuttosto lungo. Per gli anni che l'hanno separata dal precedente album, ma anche per la preparazione, che ha visto il disvelamento di alcuni brani nel corso degli ultimi mesi, da "Hardwired", ad "Atlas, Rise!" fino all'ultimo "Moth Into Flame". Pezzi che avevano alzato l'asticella dell'attesa mostrando un gruppo compatto e aggressivo come non accadeva da anni. In particolare la furia di "Hardwired", prossima all'hardcore per le sonorità grezze e violente, aveva alimentato le speranze di molti fan.
In realtà l'album è molto di più e, per molti versi, le anticipazioni, hanno portato fuori strada. Non è un caso che tutti e tre i brani anticipati appartengano al primo dei due dischi: quello dove la varietà stilistica è maggiore, dove le influenze vanno dai Judas Priest agli Iron Maiden, con grande attenzione a sonorità britanniche del metal classico anni 80. D'altronde l'attacco di "Hardwire" riporta immediatamente al 1984.
Ma mano a mano che il lavoro prosegue e si passa al secondo disco le cose cambiano. Il suono si fa decisamente monolitico e scuro, ed è come se si tornasse indietro di un decennio e gli anni 70 irrompessero in maniera prepotente. Si susseguono così una serie di pezzi dall'andamento marziale, dove spesso intro arpeggiati cedono il passo a pezzi sostenuti dalle atmosfere sabbathiane ("Am I Savage?", "Dream No More"). Dove purtroppo emerge il principale difetto del gruppo, da sempre ma particolarmente accentuato negli ultimi anni: la prolissità. Se ogni pezzo fosse stato accorciato di uno o due minuti la resa complessiva ci avrebbe solo guadagnato. Rompe l'incantesimo "Spit Out The Bone", una vera fucilata che chiude l'album ricollegandosi idealmente alla furia del pezzo di apertura. Con una tale massa di materiale la presenza di luci e ombre è quasi fisiologica, la cui percezione aumenta in virtù della divisione dei brani da un cd e l'altro e dal fatto che nel lavoro non esistano lenti o ballatone alla "Unforgiven" a spezzare le tensione. Ma è evidente che la band proprio questo voleva: un lavoro in tensione continua, e da quel punto di vista l'obiettivo è stato raggiunto.