È uscito "Deserti", nuovo album del rocker toscano e secondo capitolo della "Trilogia del disagio". Tgcom24 lo ha intervistato
di Massimo Longoni© Ufficio stampa
Piero Pelù torna con "Deserti", secondo capitolo di quella che ha chiamato la "trilogia del disagio", dopo il primo album del 2020 "Pugili fragili". Dodici canzoni che si muovono tra radici "litfibiane" ed esplorazioni di nuovi mondi musicali, mentre tematicamente affrontano la difficoltà di comunicazione tra persone, nei rapporti amorosi ma in modo ancora più ampio nei rapporti umani in generale. Un viaggio alla ricerca degli altri in un momento in cui l'umanità sembra perdersi tra i drammi della guerra.
Un album che è stato anticipato dai singoli "Maledetto cuore" e "Novichok", quest'ultima una delle canzoni di denuncia del disco, in cui Pelù usa il Novichok, "il veleno subdolamente usato da Putin per uccidere i suoi oppositori" come metafora del veleno "che ogni giorno viene propinato a noi cittadini attraverso i cibi contaminati e le propagande sempre più invasive e false". Ma per l'occasione viene anche tirata a lucido "Il mio nome è mai più" che a 25 anni dalla sua uscita è purtroppo ancora attuale. Un disco importante per Piero Pelù che vuole mettere anche la parola fine a un periodo difficile... "E' stato ed è un periodo tosto interiore e anche all'esterno, insomma, non è un caso che il titolo dell'album sia "Deserti" - spiega - . Questa desertificazione si fa sempre più evidente, anche intorno a noi. Ogni giorno abbiamo notizie di decine di morti innocenti per bombardamenti, quindi è chiaro che stiamo andando verso l'autodistruzione, questa cosa non fa certo piacere soprattutto per chi crede nel valore fondamentale della pace.
In questo album ci sono diverse canzoni significative da questo punto di vista, da "Scacciamali" alla ripresa de "Il mio nome è mai più".
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Bisogna smettere di parlare di guerra e parlare solo di pace, perché se noi parleremo sempre solo di guerra, ci verrà spontaneo di dare ragione questo, ragione a quell'altro. E quindi io sto con questo e io sto con quell'altro. Invece è proprio la pace di cui bisogna parlare, far capire l'importanza della cultura della pace. Se i risultati sono questi i nostri ministri degli Esteri degli ultimi 25 anni hanno fatto dei lavori pessimi, l'unico a cui sento dire delle cose sensate da anni è il segretario generale dell'Onu Guterres. Non c'è mai un invito al dialogo o un impegno per risolvere la situazione al di fuori dell'uso delle armi, credo che la gente si meriti molto di più di questo.
"Il mio nome mai più", tra l'altro, riporta a un periodo in cui gli artisti prendevano molto più posizione. Il rilanciare questa canzone può essere un segnale per tornare a un ruolo attivo dell'artista da questo punto di vista?
Per quello che mi riguarda non ho mai smesso, quindi io posso parlare per me stesso. Quello che fanno gli altri non posso fare altro che constatarlo ma non certo giudicare. Non ho mai smesso di seguire Amnesty, di collaborare con Lega ambiente, con tutti i difensori dei diritti civili, tutta la cultura di pace. Mi sono sentito con Gino Strada anche quando andava in Sudan a operare in una delle guerre più dimenticate della storia. E' chiaro che oggi si preferisce parlare delle stronzate tra influencer ad esempio, che non di cose importanti appunto come la cultura della pace o la cultura delle periferie da salvare dalla desertificazione sociale. Probabilmente abbiamo quello che ci meritiamo.
Sei disilluso sulla possibilità degli artisti di influenzare la gente su temi così importanti?
Non può essere certo un artista singolo a cambiare una tendenza così gravemente radicata ormai da anni. Certo, se ognuno lo facesse ci sarebbe un altro peso, ci sarebbe più movimento. Le donne in questo sono decisamente più attive di noi. "Una nessuna centomila" è una bellissima realtà che aiuta le donne su tutti i territori a reagire alle violenze dei compagni o presunti tali o dei mariti o presunti tali.
Da un punto di vista più strettamente musicale questo disco come si colloca nel tuo percorso?
Per me è un disco fondamentale, voi perché mi ha aiutato a uscire da quella depressione in cui sono caduto dopo l'incidente sul lavoro che mi ha tenuto fermo per più di un anno e mezzo dopo che mi hanno fatto esplodere le cuffie dentro le orecchie. Quindi da questo punto di vista è un disco permesso al dico e terapeutico. Dal punto di vista musicale dei contenuti è una lavoro abbastanza totale, c'è dentro un po' tutto quello che ho già fatto e vissuto sia come Litfiba che a livello solista, naturalmente rivisto in chiave moderna.
C'è un feat nell'album con i Calibro 35, come è nata questa collaborazione?
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"Deserti" è un album che parla di disagio. "Baby Bang" originariamente si chiamava "Baby Gang". Parlava del disagio che di un ragazzino degli anni 70 a Firenze che con questo suo gruppo di ragazzacci, scorribandavano dal Mugnone e dalla Chiesa Russa fino a Ponte Vecchio, ascoltando i Beatles e i Rolling Stones, Celentano e le musiche di Morricone, e andavano a vedere i film poliziotteschi o gli spaghetti western di Sergio Leone. Il collegamento con i Calibro 35 è stato assolutamente naturale e il risultato è a dir poco strepitoso, io sono stramegafelice del pezzo come è venuto fuori, come è stato pubblicato. Suonarlo dal vivo sarà tutto un altro paio di maniche ma intanto sul disco spacca di brutto.
Beh, credo avrai a disposizione una band in grado di renderlo al meglio anche in concerto...
I Bandidos, tra l'altro una band multiculturale pazzesca perché. Il disco lo ho fatto con James Castillo, il Giacomo Castellano, che è un temaeste del chitarrismo rock a livello mondiale. Dal vivo invece suonerà questo nuovo chitarrista Amudi Safa che è un ragazzo di origine medio orientale, libanese per l'esatezza, un talento clamoroso. Al basso ci sarà Max Jelsic, italianizzato in Gelsi, ex bassista di Elisa e alla batteria l'inseparabile una potenza della natura. Un trio così non l'ho mai avuto in tutta la mia vita e sono a dir poco gasato.
Per i concerti hai pensato anche a un aspetto scenico particolare?
Proietterò dei visual che ho girato io stesso durante il più buio di questi due anni dove mi sono molto immerso nella natura. Sono sempre stato un amante della fotografia del video e della pellicola, sono riuscito ad astrarre certi aspetti della natura rendendoli proprio sculture viventi astratte, non vedo l'oro di proiettarle perché secondo me saranno effetti potentissimi, uniti alle luci e alla performance.
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