Il cantautore ha pubblicato "Ciao cuore", un album in bilico tra tradizione e innovazione. Tgcom24 lo ha incontrato
di Massimo Longoni© fabio-iovino
Riccardo Sinigallia torna con "Ciao cuore". Un album tra cantautorato e sperimentazione, dove al centro ci sono le canzoni, ognuna delle quali diventa un personaggio con una storia da raccontare. Con un tratto sonoro, come sempre, originale e riconoscibilissimo. "Mi sento un po' il fratello maggiore delle nuove generazioni - dice Sinigallia a Tgcom24 -. Oggi tra trap e indie c'è un fermento come negli anni 90, ma mancano i contenuti".
Se ci voltiamo a guardare il percorso della musica italiana da fine anni 90 a oggi, vedremo comparire il nome di Riccardo Sinigallia in molte delle tappe più interessanti: dai Tiromancino de "La descrizione di un attimo" e "Due destini" al Frankie Hi-NRG di "Quelli che benpensano" e alcuni dei pezzi più amati di Max Gazzè ("Cara Valentina", "Una musica può fare") e Niccolò Fabi ("Vento d'estate", "Lasciarsi un giorno a Roma"). Ma anche le colonne sonore, l'esperienza con i Deproducers, la produzione di "Non erano fiori" di Coez, fino ad arrivare alla candidatura al David di Donatello per "A cuor leggero" (contenuta in "Ciao cuore"), canzone di coda del film "Non essere cattivo" di Claudio Caligari. Ora Sinigallia torna con un disco di relazioni dirette, in cui ogni canzone diventa un personaggio e ogni personaggio ha una storia da raccontare. Un disco che si inserisce, con molte cose da dire, in un momento particolarmente felice del nostro (nuovo) cantautorato.
Sono passati quattro anni dal precedente "Per tutti", quattro anni però pieni di esperienze. Quando sono nate le nuove canzoni?
La pausa è fondamentale per avere cose nuove da dire. Quasi sempre dopo un disco mi prendo un anno di reset esistenziale. Poi ho la fortuna di essermi costruito una parte di mestiere della musica in cui mi occupo di altre produzioni, colonne sonore. O per esempio il progetto con i Deproducer. Non mi piace l'idea di fossilizzarmi sul pensiero del prossimo disco che devo fare, è una cosa davvero poco edificante. E quindi ho la possibilità di nutrirmi di cose nuove, anche nella vita per rigenerare molte cose, sia musicali che testuali. E quindi ci metto un po'.
L'album si apre con "So delle cose che so", che ha un intro strumentale non comune nei dischi italiani di oggi.
Io ho una certa età quindi ovviamente pesco anche da tutti gli ascolti che mi hanno colpito nel corso della mia vita, e spesso ci sono cose che arrivano da molto lontano. E poi mi piace la musica continua, non mi piace molto la musica seriale, se non quando, per esempio nell'elettronica di un certo tipo, è molto ispirata. In questo pezzo mi piaceva l'idea di creare un'architettura adeguata alle parole di Franco Buffoni. Entrare nella poesia o circondarla, creare un fondale diverso su quei versi era per me una responsabilità. Volevo mantenere quei versi autonomi e allo stesso tempo dare loro una nuova prospettiva. Alla fine lui ha apprezzato molto.
Nelle tue canzoni si avverte una linea di continuità con la tradizione cantautorale e al tempo stesso la tendenza a sovvertirne spesso le regole. E' un processo che nasce spontaneo?
Sorprendentemente adesso, se faccio un viaggio nella memoria mi rendo conto che da sempre ho fatto la stessa cosa. Come se avessi l'esigenza di privilegiare da un lato la parte molto istintiva, grezza della scrittura, quella cosa che chiamiamo ispirazione. Per me è quella che conta di più. Quindi c'è una parte di scrittura testuale, melodica, super immediata, che magari di per sé contiene della piccole "distruzioni" della forma canzone tradizionale. Ma soprattutto in un secondo momento mi piace prendermene cura in un modo per cui decotenstualizzo alcune cose, edito selvaggiamente. Forse questa è la parte che più mi stimola più di tutti: amo tantissimo l'editing, ancora più dello scrivere o del suonare una canzone. Oggi ti offre delle possibilità veramente sorprendenti.
Quindi la tecnologia non è nemica del cantautore.
Assolutamente no. La tecnologia è uno strumento, esattamente come la chitarra o il pianoforte. Per me esiste la parte di acquisizione delle sorgenti, in maniera molto pura. Che è fondamentale. E lì cerco di rispettare la parte acustica, elettrica o dei synth analogici. Però dopo mi piace tantissimo lavorare con l'hard disk recording, sull'editing digitale.
In questo album affronti anche temi difficili, come "Che male c'è", dedicata a Federico Aldrovandi, e che è nata da uno scritto di Valerio Mastandrea.
Venne a casa mia, circa otto anni fa, senza preavviso. Mi appoggiò sul tavolo una chiavetta usb e mi disse: "Tiè, ho scritto questa cosa, falla diventà una canzone". Ho letto queste due pagine e sono rimasto colpito dall'impeto che aveva di manifestare rabbia. Allo stesso tempo mi sono un po' spaventato e per due anni non l'ho più aperta.
© ufficio-stampa
E poi cosa è successo?
Ero in Grecia, in un periodo molto strano, di solitudine artistica. L'ho riaperta e ci sono entrato dentro completamente. Ho iniziato a editare il testo e a lavorarci sopra. Ho aggiunto anche delle cose, eliminate altre. Alla fine la sintesi che ne è uscita mi piaceva ma allo stesso tempo non mi sentivo in condizione di interpretarla. Marina Rei ha sentito il pezzo e gliel'ho dato. Lo arrangiò con Ennio Morricone. Però, con tutti il rispetto per Morricone che per me è uno dei più grandi artisti della storia, il pezzo non mi rispondeva. E quindi a un certo punto ho sentito l'esigenza di pubblicare la mia versione.
Mastandrea è presente anche nel video di "Ciao cuore". La vostra è una collaborazione che dura dai tempi del video de "La descrizione di un attimo".
Valerio è sempre stato presente nel mio lavoro, come amico e come compagno di viaggio. Ma in questo disco è presente anche formalmente. A parte il video di ..., ha scritto con me "Che male c'è". E poi è l'artefica della scelta di "A cuor leggero" per i titoli di coda del film di Caligari.
Tu sei stato presente in molti degli episodi più interessanti della nostra musica da fine anni 90 a oggi. Come ti vedi nel panorama musicale italiano di oggi?
Per la prima volta mi ci vedo da fratello maggiore. Inizio a sentirmi vecchietto e devo dire che è piacevole. Per me e per il tipo di percorso che ho fatto, vivo un momento di grande soddisfazione. La situazione la vedo molto simile a quella che ho vissuto io negli anni 90, anche se all'epoca c'erano molti più contenuti.
Eppure il periodo storico dovrebbe essere una fonte di ispirazione notevole, non trovi?
Però in realtà quella che entra nella musica è un'espressione che somiglia alla tensione sociale che stiamo vivendo: è molto poco onirica, molto poco politica e molto individualistica. Mi pare la cosa che ricorre nella nuova musica italiano, sia nei testi che nella musica, "sti cazzi de' tutto". Questo è il messaggio ricorrente.
E tu cosa ne pensi?
All'inizio è una cosa che mi ha anche conquistato. Nella prima Dark Polo Gang vedevo la fotografia più autentica della contemporaneità e anche una grande innovazione musicale. La prima uscita della trap mi ha molto colpito. Ma dopo la reiterazione, il cliché di questa roba è arrivato a un punto che se mi trovo a un semaforo e mi affianca una macchina da cui esce questo autotune a palla... provo una grande pena per me che vedo questa scena e per chi è dentro la macchina.
In compenso c'è un grande fermento nel mondo dell'indie.
Che è anche peggio! Meno innovativo, meno autentico. Anche se ovviamente ci sono delle eccezioni e delle belle cose. Poche. La maggior parte delle cose che funzionano le trovo molto derivative e simili a cose di fine anni 80 inizio 90. Se non nella parte testuale che però allo stesso tempo è irritante.
Tutto da buttare quindi?
No, c'è una novità positiva che è quella discografica. Il fatto che oggi, grazie al web, un ragazzo che fa musica o un artista, possa scrivere una cosa, produrla in maniera rapida e pubblicarla così com'è, senza che nessuno applichi dei filtri estetici, senza un discografico che ti indirizzi o condizioni, è fantastico. Questi escono, hanno i loro giri e funzionano e riempiono i posti. Questo è fantastico.