Andò porta a teatro uno dei capolavori del regista svedese, con un Carpentieri immenso
di Roberto Ciarapica© Ufficio stampa
Dove erano rimasti? Trentadue anni dopo il loro ultimo incontro, Johan e Marianne si ritrovano a casa dell’ormai vecchio professore emerito, dove l’ex moglie si presenta improvvisamente per fare un bilancio di tutto. Roberto Andò porta a teatro (dal 18 al 23 febbraio allo Strehler di Milano, poi in tournée in tutta Italia) l'ultimo film di Ingmar Bergman, “Sarabanda”, con cui nel 2003 il regista svedese riprese (e concluse) la storia del suo “Scene da un matrimonio” del 1973, e con cui portò a termine anche la sua parabola personale, congedandosi dal cinema e dal mondo.
Sarabanda è un’opera testamento, un lavoro terminale, in cui Bergman fa i conti col suo cinema teatrale, fatto di parole e silenzi, ma soprattutto fa i conti con sé stesso: come regista, come uomo, come marito, come padre, come essere umano. Il risultato è un capolavoro nichilista, un urlo disperato e disperante che non dà scampo alla speranza, all’ottimismo, all’amore.
Se Bergman fu tentato di costruire il suo Sarabanda per il teatro (il testo è in dieci brevi atti, con prologo ed epilogo), Andò lo tiene in bilico tra palcoscenico e cinema usando quinte nere orizzontali e verticali che si intersecano, stringendo e allargando continuamente la visione, come se lo spettatore guardasse da un obiettivo. In questo modo il regista palermitano mette a fuoco, accompagnando lo spettatore nell’intimità dei personaggi: il vecchio professore Johan (immenso, ansimante, struggente Renato Carpentieri, al massimo del suo splendore, come nella "Tenerezza" di Amelio); la sua ex moglie Marianne (Alvia Reale, misurata, equilibrata, giusta: una magnifica prova di sguardi, la sua); l’odiato figlio di primo letto di Johan, il violoncellista Henrik (Elia Schilton, che suona perfettamente le corde bergmaniane della propria parte) e sua figlia Karin (Caterina Tieghi, giovanissima e già pronta).
Nei dieci atti dell’opera, i quattro personaggi si confrontano sempre a due a due, una scelta che ha permesso a Bergman di vivisezionarne l’animo. Siamo sempre nella remota dimora di campagna del vecchio professor Johan: è qui che si presentano, prima, l’ex moglie, poi, di volta in volta, il figlio e la nipote, che abitano in una vecchia casa dall’altra parte del lago dove Henrik – con la scusa di prepararla all’esame d’ingresso al conservatorio – ha di fatto segregato la figlia Karin, promettente violoncellista a rischio incesto avendo sostituito nel cuore e nei desideri del nevrotico padre la madre scomparsa due anni prima.
Come nella Sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva, proibita dalla Spagna del sedicesimo secolo per poi essere ripresa da grandi compositori come Bach, l’opera di Bergman/Andò (qui accompagnata dalle musiche di Pasquale Scialò, che scandiscono perfettamente i dialoghi come evidenziatori della parola) è una specie di lento ballo di morte, in cui la disperazione di padre e figlio è avvinghiata alla tenue, quasi impercettibile speranza della nipote (quella di fuggire lontano per rifarsi una vita, unica fiammella accesa in un panorama umano desolato). A tenere in equilibro le loro tragiche esistenze è la presenza dell’ex moglie di Johan che incontra ognuno di loro separatamente per ascoltarne i testamenti. Quello del suo ex marito - da sempre incapace di amare, alla resa dei conti con i sensi di colpa, con la vecchiaia, con la morte - è un monologo finale in cui Andò, mostrando una forza registica rara, va oltre Bergman, spingendo (se possibile) più avanti il suo pessimismo, lasciando i personaggi nudi, come fossero appena nati. Nati morti.