Tratto dal romanzo di Romain Gary, lo spettacolo è in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 6 febbraio
di Antonella Fagà© Laila Pozzo
Da quando sono inciampato in questo capolavoro mi è entrato nel cervello ed è stato impossibile non metterlo in scena...". Il capolavoro di cui Silvio Orlando parla è "La vita davanti a sé" di Romain Gary, di cui cura l'adattamento e la regia oltre a esserne l'interprete, fino al 6 febbraio al Teatro Franco Parenti di Milano. Lo spettacolo racconta la storia di Momò, bimbo arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Belleville nella pensione di Madame Rosa, anziana ex prostituta ebrea che ora sbarca il lunario prendendosi cura degli “incidenti sul lavoro” delle colleghe più giovani. Un romanzo commovente e attualissimo portato due anni fa anche sul grande schermo con la regia di Edoardo Ponti e la partecipazione di Sophia Loren. "Non ho avuto il coraggio", scherza Orlando: "di dire alla Loren che mi aveva rubato l'idea...".
Pubblicato nel 1975 e adattato per il cinema nel 1977, il romanzo di Gary anticipa, senza facili ideologie e sbrigative soluzioni, il tema dei temi contemporaneo, ovvero la convivenza tra culture religioni e stili di vita diversi.
"E' un romanzo che parla d'inclusione e d'immigrazione, temi che, quando ho deciso di metterlo in scena", così racconta Silvio Orlando a Tgcom24, "erano molto presenti. Poi è arrivato il Covid e non se ne più parlato. Ma ogni giorno muoiono a migliaia nel Mediterraneo, oggi come due anni fa".
Nello spettacolo ci sono due piani di riflessione e di sviluppo, quello sociale e quello più emozionale...
Sì il tema dell'immigrazione è quello razionale di utilità dello spettacolo volto a favorire un dibattito. Ma c'è anche un elemento sentimentale umano e personale ed è quello del rapporto con la propria madre, l'assenza della propria madre e l'irrisolvibilità della relazione che ognuno ha e ha avuto con lei, nessuno può dire di aver risolto davvero questo rapporto. Io nemmeno.
Lei interpreta un bambino, così come nel film "Il bambino nascosto" uscito nel 2021, pura casualità?
Sì una coincidenza di base, ma certo arriva un momento a un certo punto nella tua età in cui si ha bisogno di parlare della propria infanzia e di ritornarci, si chiude un cerchio, l'anziano che sei adesso è determinato dal bambino che sei stato. L'idea di confrontarsi con quel periodo, con l'infanzia, quel luogo dell'anima dove si fanno giochi, è determinante per me. Tutta la prima fase della vita di una persona, quella che riguarda l'educazione, il compartimento affettivo, determina poi quello che sarà il futuro dell'individuo e la vita della società. Spesso ci occupiamo delle cose quando è troppo tardi. Se poi il bambino in questione è un arabo con problemi d'integrazione...
© Laila Pozzo
Il tema dei migranti è molto presente...
Le vite dei migranti sono così precarie che sono diventati quasi una specie di fantasmi che abitano le nostre città, ma è come se non facessero parte del nostro quotidiano. Si tende a vivere il migrante come problema di ordine pubblico, come minaccia terroristica, bisognerebbe fare tanto lavoro di sensibilizzazione, perché questo è un problema innanzitutto di diritti di cittadinanza. Ma il tema dei migranti non fa lucrare voti...
Cosa la lega al personaggio che interpreta?
Tutte le cose che scelgo di fare le scelgo cercando elementi che mi parlino come persona per entrare nella storia e per avere qualcosa da dire di più rispetto a quello che c'è nelle pagine. Ho bisogno di avere una connessione sentimentale con i personaggi, il che mi permette di avere una connessione sentimentale con il pubblico, qualcosa che va al di là della ragione ed è del tutto irrazionale. Ancora adesso in questo spettacolo ho momenti che sono insostenibili, un rimosso che viene a galla e mi rende ipersensibile, ma questo è importante perché dà calore allo spettacolo ed è un momento di condivisione con il pubblico. Per me però uno spettacolo deve essere così, non di testa, ma emozionale, che ti cambia un po' la vita quando esco da teatro.
© Laila Pozzo
In scena recita in un monologo, che difficoltà ha riscontrato in questa nuova forma di stare sul palco?
Questo è uno spettacolo che vibra tanto, con molte difficoltà tecniche perché sono da solo sul palco. Io tendo come una corda di violino dall'inizio alla fine e non mi posso permettere tante pause. E' uno spettacolo frenetico in un qualche modo, ma per una strana alchimia questa frenesia, questo agitarsi di Momò per le vie di Parigi questa sua ansia di affrontare la vita che ha davanti in maniera non passiva, avvertendo il pericolo delle possibili derive pericolose, lo conduce a una forma di autocontrollo, che gli permette di non lasciarsi andare. Ecco questa cosa mi ha accompagnato nella mia vita, anch'io ho sempre avuto questa tendenza a tenere questo controllo su me stesso per non essere tirato dentro a un vortice incontrollabile.
Il grande lavoro che ho dovuto fare è stato quello di togliere il fruscio delle pagine scritte, non è un monologo nato monologo e di volta in volta che incontro i personaggi che incontra Momò li rappresento...
Quali sono state le difficoltà incontrate sul suo cammino
Alla fine siamo tutti profughi come Momò, anche io ho preso le mie valige e sono arrivato a Milano per cercare fortuna, e in quel capitolo della mia vita ho dovuto capire cosa si voleva d me e quali pericoli mi attendevano. Tra questi quello di essere coinvolto nel vortice di una politica napoletanistica, piena di cliché, a cui ho cercato di sfuggire. Sono nato in un ambiente in cui l'eredità dell’essere napoletano era insostenibile, eri un pregiudicato ad essere napoletano. Per fortuna ho fatto alcuni incontri che mi hanno dato delle possibilità, delle opportunità che io sono stato bravo a cogliere. Tra loro Gabriele Salvatores con il quale abbiamo riflettuto da una parte sulla dimensione poetica e alta della napoletanità, per ricollegarsi con la parte nobile della cultura napoletana e dall'altra sulla comicità, che poteva anche non essere semplice intrattenimento, bensì veicolo per una presa di posizione politica. E poi c'è stato Moretti che mi ha consentito di considerare anche l'elemento politico e civile nel fare l'attore.
Ho attraversato tutte queste suggestioni per riportarle a me e dar loro una certa umanità e imparando da tutti ho cercato di mantenere la mia originalità.
Le ultime parole del romanzo di Gary sono "Bisogna voler bene" cosa significa per lei?
L'ho voluta tenere come una sfida, non è una richiesta, un "volemose bene", Momò lancia questa sfida: possiamo fare tutte le politiche del mondo e avere tutte le risorse del mondo ma se non c'è amore non si va da nessuna parte.