L'11 gennaio del 1999 moriva, stroncato da un tumore ai polmoni, uno dei cantautori più importanti di sempre. Ma la sua è una presenza ancora indelebile
di Massimo Longoni© lapresse
Vent'anni da quell'11 gennaio 1999. Tanti ne sono passati da quando Fabrizio De André se ne è andato lasciando un vuoto, per non dire una voragine, nel panorama della musica italiana. Vuoto colmato dalla sua opera, ancora oggi attualissima e viva in chi la porta in giro, dalla Pfm al figlio Cristiano, e nelle uscite curate dalla Fondazione De André.
Sono in tanti a volerlo ricordare in qualche modo in questo 20esimo anniversario della morte. In tutta Italia si svolgeranno manifestazioni ed eventi, a partire da Genova, dove saranno proprio Dori Ghezzi e Cristiano a raccontarlo e omaggiarlo. Un'intera giornata a lui dedicata, con Gino Paoli, Neri Marcorè, Antonio Ricci, Fabio Fazio, Morgan e Luca Bizzarri a raccontare il "loro" De Andre'. Mentre la Pfm in primavera tornerà sui palchi di tutta Italia con "PFM canta De André - Anniversary', un tour a 40 anni dal fortunato sodalizio con il cantautore genovese.
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Un artista a tutto tondo, che ha sempre preferito la definizione di cantautore a quella di poeta spesso associategli. Perché se in De André le parole avevano un peso preponderante e scintillavano per la loro forza, la parte musicale, soprattutto da un certo momento in poi della sua carriera, è sempre stata altrettanto curata. Sin dai primi anni 70, con le molteplici sfumature di "Non al denaro non all'amore né al cielo" e "Storia di un impiegato", dove emerge il De André più politico che racconta il '68 e il maggio francese, album entrambi arrangiati da Nicola Piovani. E poi lui, nato sugli chansonnier francesi, in particolare George Brassens, si apre al folk e al rock di matrice americana, prima grazie a Francesco De Gregori ("Volume 8") e poi con Massimo Bubola ("Rimini").
Nel 1979 c'è l'incrocio decisivo, quello con la Pfm. In tour passato alla storia due mondi apparentemente distanti (e per questo contestati dasi rispettivi fan) si sovrappongono, e le parole e le costruzioni melodiche di Faber si vestono in maniera sontuosa con gli arrangiamenti del più celebre gruppo prog italiano. Da quell'esperienza De André ne uscirà con un'attenzione per la ricchezza sonora, soprattutto dal vivo, mai sperimentata prima di allora. I passaggi successivi sono "L'indiano", figlio dell'esperienza del rapimento in Sardegna. E poi "Creuza de ma". Per molti il suo capolavoro, un gioiello di world music, alla cui base c'è il prezioso lavoro di Mauro Pagani, che dalla tradizione genovese si apre ai suoni del Mediterranneo.
Apertura verso l'altro, il diverso e (spesso) l'emarginato. Nell'opera di De André questa è una costante, sia nel modo di procedere sia nel racconto musicale. De André non si è mai chiuso nella torre d'avorio della propria arte. Ha collaborato continuamente con colleghi, l'ultimo dei quali, in ordine di tempo è stato Ivano Fossai per "Anime salve", per ampliare le proprie vedute e mettere a confronto le diverse idee. E allo stesso tempo pochi hanno scandagliato l'animo umano con la stessa profondità e lo stesso acume usato nelle sue canzoni. Che raccontasse episodi tratti dai vangeli apocrifi o che mettesse in musica le poesie dell'"Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters tradotte da Fernanda Pivano, De André parlava dell'uomo di oggi. In maniera impietosa, feroce, mai retorica, in qualche caso indulgente. E l'uomo che più gli interessava era quello messo ai margini, lui pure che arrivava da un'estrazione borghese mal sopportata e alla quale si ribellò sin dall'inizio. Puttane, assassini, galeotti, zingari, nani rancorosi, contadini rissosi, ladroni. Sono questi molti dei personaggi che animavano il suo universo e che in quello ritrovavano una dignità negata altrove.
La sua voce e il suo pensiero mancano oggi più che mai (come quelli di Giorgio Gaber), in un periodo storico in cui avere un pensiero sembra essere una colpa. Lui che ha studiato poeti e letterati per meglio capire il mondo e restituirlo con profondità. Lui che ha detto di credere di essere considerato un punto di riferimento perché avendo avuto dei punti riferimento culturali precisi ha potuto tramandarli e restituirli alle generazioni successive alla sua. Ma chissà, forse oggi anche a lui toccherebbe essere bollato come un radical chic che farebbe meglio a cantare e basta.
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