Considerato uno dei più grandi cineasti della storia, ha portato il genere più americano del mondo in riva al Mediterraneo. Le gesta dei suoi cowboy e dei suoi gangster, interpretati da divi come Clint Eastwood e Robert De Niro, sono entrati nell'olimpo della Settima Arte
"Ehi biondo, lo sai di chi sei figlio tu?". La parolaccia di risposta che chiude Il buono, il brutto, il cattivo è coperta da un "grido melodico", ma l'abbiamo capita benissimo. Non sappiamo se il Brutto/Eli Wallach avesse ragione sul concepimento del Buono/Clint Eastwood, ciò che sappiamo bene è però di chi siamo figli noi spettatori di cinema che, dai Sessanta in poi, abbiamo affollato poltrone e divani per ammirare il Far West dei cowboy e delle pistole. E dei dollari, che nel frattempo si erano trasferiti in riva al Mediterraneo, intrisi della polvere delle praterie desertiche degli Stati Uniti. Il tutto grazie a un signore che se n'è andato trent'anni fa, il 30 aprile 1989, lasciandoci tutti orfani di un padre culturale: Sergio Leone. I suoi spaghetti western hanno svezzato generazioni vicine e lontanissime tra loro, uguali e diverse nella misura in cui si sono immedesimate in una frase, uno sguardo, un primissimo piano, una colonna sonora. Un autentico mito della storia della Settima Arte. Un mito con sigaro e occhialoni, fieramente italiano.
Per un pugno di film - Quando si parla di grandi uomini si vogliono trovare sempre grandi record. Ma con Leone, più che di numeri, si deve parlare di arte. Sarà perché in mano ci è rimasto un pugno di film, appena sette in 23 anni di carriera, venuti fuori a sua immagine e somiglianza: poche parole, pochissime, e tanti sguardi. Tantissimi, come le ore passate a vederli e rivederli, seduti accanto ai nonni, a mamma, a papà, sul divano. Non solo western, ma anche un peplum (all'inizio) e un "gangster drama" (alla fine): Il colosso di Rodi (1961), Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), C'era una volta il West (1968), Giù la testa (1971), C'era una volta in America (1984).
Maestro della metafora - Esageriamo pure: se vogliamo metterla sul matematico, che pretende sempre di suggerire la giusta grandezza delle cose, Omero sta all'antica Grecia come Sergio Leone sta al "nuovo western". Non ha solo inventato un genere mai girato prima. No, ha fatto molto di più: ha inventato un genere mai pensato prima. Rimanendo nel campo semantico dell'epica, l'estremo realismo dei suoi personaggi, delle sparatorie, delle vendette era in realtà estrema metafora. Il "lontano West" non è che l'immagine polverosa di un mondo dominato dalla violenza e dagli interessi. I congiurati e i Fenici de Il colosso di Rodi diventano i pistoleri della Trilogia del dollaro, i pistoleri diventano i gangster di C'era una volta in America. Tutti (anti)eroi che Leone manovra e muove all'interno di uno scenario mitico, il luogo prediletto dei sogni della sua infanzia: l'America.
Il nuovo western - Sergio Leone, romano de Roma, l'inglese non lo sapeva parlare. E non l'aveva mai nascosto. Ironia della sorte, però, il cinema americano (e mondiale) ha imparato la sua lingua. Proprio quel cinema americano che - Griffith ci perdoni - è nato western. Lo spaghetti western, come il mondo l'ha voluto etichettare, ha riscritto il genere di John Ford, evocativo ed eroicizzante. L'intento originale era chiaro: fornire agli Stati Uniti un'epica che, per questioni "anagrafiche", non aveva potuto sviluppare o ripescare dal passato. Gli Ulisse e gli Achille a stelle e strisce sono molto più vicini dei nostri, vengono dal secolo passato e non con lance e scudi, ma con le Colt, infiniti lutti hanno addotto ai nemici. Grazie al suo sguardo originale, al suo inconfondibile stile, il regista italiano ha cambiato i connotati di un genere classico. Leone era un narratore di favole contemporanee, che iniziano sempre con "C'era una volta" (il West o l'America, a scelta). C'è la morale, l'insegnamento, in un misto di attese, solitudine e ricordi sbiaditi dal tempo.
La vita dell'uomo e del regista - Impara l'arte e mettila da parte, si dice. Sergio Leone ci era addirittura nato, figlio d'arte, a Roma nel 1929, l'anno dei Patti Lateranensi. Suo padre era il regista Roberto Roberti (vero nome Vincenzo Leone), mentre sua madre era l'attrice Bice Waleran (Edvige Valcarenghi). Il padre del western all'italiana è però anche figlio del Neorealismo: a 18 anni spunta una particina in Ladri di biciclette, ma il mondo sognato dal ragazzo ha già i confini sterminati del West. Sui pratoni romani vede cavalcare Tom Mix e nel sangue gli scorre la passione per un cinema epico e molto lontano dal racconto del Dopoguerra italico, nonostante l'attenzione al reale resti per lui un obbligo morale. Dopo aver lavorato sui set di kolossal Quo vadis? e Ben Hur, assisterà Mario Bonnard come regista della seconda unità in Gli ultimi giorni di Pompei. E' il passo decisivo: due anni dopo, nel 1961, si vede proporre la regia per un kolossal peplum da girare con basso budget e attori rimediati all'ultimo momento. Col kolossal nel destino Sergio Leone se n'è anche andato, per un infarto, il 30 aprile 1989, mentre preparava il film che idealmente avrebbe aperto una nuova stagione della sua opera: il racconto dell'assedio di Leningrado cui per anni ha cercato di rimettere mano, come esplicito omaggio al maestro, Giuseppe Tornatore.
Il successo postumo - Come il grande Totò, pur con le dovute proporzioni, Sergio Leone è stato rivalutato soltanto dopo la sua morte. All'uscita nelle sale, le sue pellicole non avevano infatti riscosso il successo sperato. La sua fama si è espansa in maniera incontrollabile e i suoi film hanno contribuito a costruire un immaginario che ancora oggi è ben presente nella coscienza del mondo. Il celeberrimo Quentin Tarantino, un altro che di cinema ne capisce qualcosa, per indicare al cameraman che vuole un primo piano particolare, dice: "Dammi un Sergio Leone". Leggere oggi sui dizionari di cinema di tutto il mondo che Leone è unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi registi della storia fa perfino sorridere, ricordando le diffidenze, gli ostracismi e le superficialità dei giudizi che hanno accompagnato la sua carriera. Gli spettatori medi degli Anni 60 e 70 volevano western con duelli sotto il sole, saloon, scazzottate e sangue. Ma Leone è andato oltre, ha dato di più.
La Maniera Leone - La cosidetta "Maniera Leone" ha ispirato intere generazioni e scuole di cineasti. Lo stesso Tarantino, tanto per richiamarlo in causa, ha intitolato non a caso C'era una volta a Hollywood il suo ultimo film. Per non parlare di Clint Eastwood, diventato regista sulle orme del "papà" italiano e grato al punto da dedicargli il suo capolavoro "Gli spietati". Scendendo nel mero tecnicismo, lo stile leonesco si incarna nel suo uso sapiente dello zoom, nella sua ricerca ossessiva dei primissimi piani e nella sua alternanza con i piani lunghissimi, nella dilatazione straniante dei tempi narrativi in attesa di un evento costantemente rimandato (l'inizio di C'era una volta il West), nella teatralità ostentata dei riti fondanti (il duello finale de Il buono, il brutto, il cattivo). Le musiche di Ennio Morricone, le sceneggiature padroneggiate con mano sicura ma alimentate da talenti sempre nuovi (Dario Argento e Bernardo Bertolucci collaborano a C'era una volta il west) e da complici/amici come Luciano Vincenzoni hanno fatto il resto.
La genesi della Trilogia del dollaro - Come per ogni grande autore che si rispetti, anche la genesi delle opere è finita per assumere contorni leggendari in cui tutto si incastra quasi per disegno divino, superiore, in maniera quasi incredibile. Ed è proprio lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni a raccontarlo, parlando della nascita di un grande capitolo della Trilogia del dollaro. "Mi portò un suo trattamento intitolato La collina degli stivali. Guarda, prima di scriverlo ti dico già il titolo. Hai scritto Per un pugno di dollari? Questo sarà Per qualche dollaro in più. Molti milioni di dollari in più". Milioni che arrivarono in fretta: avevano appena acquistato il film per cifre astronomiche quando, come all'epoca si usava in quella Hollywood ipertrofica di capitali e di produzioni, quando le major domandarono a Vincenzoni: "What next?", "quale sarà il prossimo film?". La risposta di Vincenzoni fu decisiva. "Mi sono ricordato che la United Artists aveva comprato La Grande Guerra. E allora ho detto che il prossimo film sarà su tre sporcaccioni che attraverso la Guerra di Secessione... Avete presente La Grande Guerra? Ecco, loro non rincorrono la gloria, ma i soldi. E il titolo potrebbe essere Il buono, il brutto, il cattivo".
Per la prima volta nella storia del cinema una major company americana, senza un romanzo o uno straccio di trattamento, acquistò a scatola chiusa un'idea sulla quale investire milioni di dollari. Anche questo, tutto questo, è stato Sergio Leone.