Attore versatile e geniale, corteggiato da registi importanti come Scola e Bertolucci
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A venticinque anni dalla scomparsa, Ugo Tognazzi continua a rappresentare la maschera più autentica e reale del vero italiano, interpretato sul grande schermo senza troppi vezzi. Da qui un prezzo alto da pagare, quello di essere uno specchio in cui nessuno si voleva davvero vedere. Tra i cosiddetti "colonnelli della risata" (Nino Manfredi, Alberto Sordi, Vittorio Gassmann) era infatti il più anomalo perché il più normale.
Nato a Cremona il 23 marzo del 1922 e morto a Roma il 27 ottobre del '90; Tognazzi era un degno figlio della pianura padana, sospeso tra la pragmatica Lombardia e la goduriosa Emilia. L'esordio avviene a soli quattro anni al teatro Donizetti di Bergamo, ma è a 14 anni che viene notato da Wanda Osiris che lo fa debuttare nella rivista al fianco di Walter Chiari.
La grande popolarità arriva però grazie alla tv, dove lavora in coppia con Raimondo Vianello, fino a quando i due non incappano in uno dei tanti tabù del piccolo schermo. Durante il programma "Un due tre" scherzano troppo sugli infortuni galanti dell'allora Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. Il programma viene fatto chiudere e Tognazzi si concentra sulla carriera cinematografica.
Nel '61 è protagonista del film cult "Il federale" di Luciano Salce, mentre l'anno successivo Dino Risi lo vuole per "La marcia su Roma" di Dino Risi. Nel 1963 incontra Marco Ferreri che, cogliendo il suo melange di comicità e melanconia, gli affida un ruolo ne "La donna scimmia" e "La grande abbuffata".
Da questo momento tutti i grandi lo vogliono: il giovane Ettore Scola ne "Il commissario pepe" ('69), Pier Paolo Pasolini in "Porcile", mentre Dino Buzzati in "Il fischio al naso" ('67). Pupi Avati lo vuole protagonista insieme a Paolo Villaggio ne "La mazurka del barone", mentre Bernardo Bertolucci lo scrittura per "La tragedia di un uomo ridicolo", che nel 1981 conquista la Palma d'oro a Cannes.