LA RECENSIONE

Il ritorno dei Cure, canzoni necessarie per esorcizzare un mondo perduto

Esce il primo novembre "Songs of a Lost World", il nuovo album della band di Robert Smith. Tgcom24 lo ha ascoltato in anteprima

di Massimo Longoni
11 Ott 2024 - 09:28
 © Ufficio stampa

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L'appuntamento è per il primo novembre. È quello il giorno in cui uscirà "Songs of a Lost World", il nuovo album dei Cure atteso dai fan della band di Robert Smith da 16 anni. Otto canzoni, buona parte delle quali già conosciute, almeno da quelle persone, oltre un milione e 300mila, che hanno affollato il tour mondiale del 2022 in cui il gruppo ha presentato in anteprima alcuni brani. Ma da quelle prime uscite i pezzi, che hanno avuto una gestazione lunga, hanno avuto modo di essere limati e irrobustiti.  Tgcom24 ha avuto la possibilità di ascoltare l'album in anteprima, queste sono le nostre impressioni.

I primi estratti dall'album sono stati "Alone" e "A Fragile Thing". Soprattutto la prima, con la sua lunga intro strumentale e l'atmosfera dolente, ha fatto sì che molti vagheggiassero di un ritorno ai tempi di "Disintegration". Conviene subito sgombrare il campo da dubbi ed equivoci: le parentele di "Songs of a Lost World" con "Disintegration" sono veramente poche e labili. Senza contare che non si farebbe un buon servizio a paragonare questo nuovo album a quello che probabilmente è l'apice della ricerca sonora e lirica di Robert Smith, la realtà è che da un punto di vista compositivo e lirico i punti di contatto con quel capolavoro sono pochi. A meno di non accontentarsi di atmosfere cupe e basso in evidenza, ma in fondo stiamo parlando di elementi da sempre presenti nei lavori dei Cure. Se proprio si vuole cercare un anello di congiunzione molto meglio guardare a "Bloodflowers", un disco che in qualche modo è stato considerato dallo stesso Robert Smith figlio di "Disintegration", chiusura di un'ideale trilogia iniziata con "Pornography" nel 1982 proseguita appunta con "Disintegration" nel 1989. Non è un caso che anche questa volta per la produzione Robert Smith abbia deciso di essere affiancato da Paul Corkett, che appunto aveva plasmato il suono di "Bloodflowers" (dopo aver fatto da ingegnere del suono al troppo vituperato "Wild Mood Swings").

Ma se là prevalevano spesso suoni acustici qui si va incontro a canzoni ruvide, sporche, con una sezione ritmica preponderante e le chitarre in grande evidenza. Al punto che viene da pensare che un album del genere sarebbe stato la naturale creatura della formazione senza un tastierista fisso che Smith aveva messo insieme tra il 2005 e il 2011 e che aveva invece partorito "4:13 Dream", lavoro fiacco e poco ispirato che questi 16 anni hanno contribuito a far dimenticare. A questo giro la formazione è quella più classica, che negli ultimi dieci anni ha girato più volte il mondo in tour, con Reeves Gabrels (a lungo con David Bowie) alla chitarra e Roger O'Donnell alle tastiere. I synth però questa volta recitano più un ruolo da gregario, lasciando piuttosto, in paio di brani, al piano suonato da Smith quello da protagonista. E la tradizionale (almeno dal 1984 in avanti) ricchezza di sfumature negli arrangiamenti della band in buona parte si perde, compattata da un missaggio e una produzione dove i suoni sono ultracompressi, con l'evidente intenzione di comporre un monolito dove i molti tasselli del puzzle vengono schiacciati a favore di un effetto complessivo volutamente stordente per meglio trasferire all'ascoltatore il senso di smarrimento che affiora spesso nei testi.  

© Sam Rockman

© Sam Rockman

Questo è infatti il quadro necessario a Robert Smith per dare vita a otto canzoni in cui affrontare il suo mondo perduto. Che è un mondo di affetti che vanno perdendosi, ferite che si sommano e conti inevitabili da fare con il tema della mortalità. Che viene affrontato direttamente in "And Nothing Is Forever", in cui Smith parla della paura che abbiamo di morire da soli, e indirettamente in "I Can Never Say Goodbye", scritta dopo la morte improvvisa di suo fratello Richard. Superata la soglia dei 60 anni Robert Smith è una persona diversa da quella che nel 1982 declamava in "One Hundred Years" "Non importa se moriremo tutti". Ora la morte è una realtà meno lontana e meno romanticamente idealizzabile e tocca farci i conti. E oggi Smith ha trovato piuttosto nelle parole della poesia "Dregs" del poeta decadente inglese Robert Dowson ("Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo"), le liriche da cui far germogliare tutto il progetto. In tutto questo filo conduttore è quello della solitudine, in molte situazioni della vita ma anche di fronte alla morte.

Ma c'è anche la confusione e la rabbia di fronte a situazioni più prosaiche, come quella la ispiratrice di "Drone:nodrone", in cui Smith ha riversato il suo sgomento suscitato dall'intrusione di un drone nella privacy della sua casa, episodio emblematico di una società in cui la tecnologia ha reso possibile (e per molti discutibilmente lecito) curiosare nelle vite di chiunque. "Warsong" mette tristemente i piedi nell'attualità, partendo come una canzone sui conflitti personali per salire di scala e prendere atto che probabilmente il conflitto e la guerra fanno parte della natura umana.  

"Blooflowers" dicevamo. Se pur nel 2000 l'album era stato salutato positivamente come una ritorno alle atmosfere cupe più tipicamente affini al gruppo il punto di debole di quel disco era nella composizione. Un lavoro apprezzabile nella sua totalità ma povero di pezzi veramente memorabili. Prova ne è la loro scomparsa dalle scalette, pur fluviali, dei concerti degli anni a venire. In "Songs of a Lost World" l'impressione è che invece le canzoni degne di rientrare con un proprio peso specifico nella storia dei Cure ci siano. Non solo "Alone", che alla sua uscita ha suscitato entusiasmi (quasi) unanimi, ma "And Nothing Is Forever", "I Can Say Goodbye" e soprattutto la maestosa "Endsong" che chiude l'album. Quasi dieci minuti, di cui oltre cinque assorbiti da un'introduzione strumentale, che chiudono il cerchio aperto da "Alone" senza lasciare un senso di redenzione quanto di consapevolezza. Interessante anche "All I Ever Am", con una bella ritmica trascinata da un drumming martellante e un Simon Gallup sugli scudi (ma quando il suo basso non lo è?), mentre Smith canta della difficoltà di sovrapporre ciò che è oggi con, la sua visione della vita e del mondo, con ciò che è stato. 

Perché "Songs of a Lost World" non è un capolavoro, sarebbe ingenuo e ingeneroso pretenderlo da una band con 45 anni di (gloriosa) storia alle spalle. Ma un album importante e necessario sì. Necessario tanto che Robert Smith si è deciso a pubblicarlo dopo 16 anni di annunci e retromarce su uscite di nuova musica che poi non appariva mai perché non convinceva in pieno il mastermind dei Cure. Questa volta sì. Non sappiamo se "Songs of a Lost World" chiuderà la storia discografica dei Cure, ma sicuramente ci si inserisce con pieno merito.

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