Il gruppo inglese con il suo terzo album, pubblicato nel 1982, avrebbe dato una svolta decisiva alla propria carriera
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Il 22 marzo del 1982 arrivava nei negozi "The Number of the Beast", terzo album degli Iron Maiden, tra i principali esponenti della New Wave of British Heavy Metal. Un disco che avrebbe cambiato le sorti del gruppo che vedeva per la prima volta alla voce Bruce Dickinson ma del metal tutto, diventando uno dei dischi più celebri di sempre, punto di riferimenti per generazioni di amanti del rock duro.
Già fattisi notare con l'album omonimo d'esordio del 1980 e per "Killers", uscito un anno più tardi, per gli Iron Maiden "The Number of the Beast" è il disco della svolta. Il cambio fondamentale è dietro al microfono: fatto fuori il cantante Paul Di' Anno, e con lui anche un mood stradaiolo e un'anima vagamente punk che ancora permeava i primi due dischi, arriva nel gruppo, direttamente dai Samson, una voce completamente diversa: Bruce Dickinson.
Di' Anno e Dickinson sono il giorno e la notte: non solo fisicamente (capelli corti neri il primo, lunghi e biondi il secondo) ma soprattutto vocalmente. Di' Anno, con un'impostazione blues, fa dell'interpretazione innervata da una certa rabbia, la sua cifra stilistica, Dickinson ha un'ugola prodigiosa, con un'estensione formidabile che, in virtù dei suoi acuti, lo porterà a essere soprannominato "Air Raid Siren". Va da sé che la diversa vocalità apra, in particolare a Steve Harris, bassista e leader del gruppo, possibilità compositive fino ad allora inesplorate.
Ne esce un album che, assemblato sotto la guida fondamentale del produttore Martin Birch (già con i Deep Purple), in 8 brani traccia le coordinate di buona parte del classic metal di metà anni 80. Dall'apertura travolgente di "Invaders" alla chiusura con la drammatica "Hallowed Be Thy Name", è una cavalcata esaltante. I momenti iconici sono svariati: il lento dalle atmosfere sulfuree "Children of the Damned", "The Prisoner" ispirata dall'omonima serie tv anni 60, "22 Acacia Avenue", che riprende la vicenda di "Charlotte the Harlot" narrata in un pezzo dell'album di debutto. E poi "The Number of the Beast", con l'intro recitato dall'Apocalisse di Giovanni (la voce è di un attore inglese dal timbro molto simile a quello di Vincent Price e che venne scelto perché Price aveva avanzato richieste troppo onerose), e "Run to the Hills", sulle battaglie tra inglesi e nativi americani ai tempi della colonizzazione degli Stati Uniti. Quest'ultima, "The Prisoner" e "Gangland" sono caratterizzate in maniera fondamentale da invenzioni ritmiche del batterista Clive Burr, qui alla sua ultima apparizione: dall'album successivo, "Piece of Mind", sarebbe stato sostituito da Nicko McBrain, in una formazione che sarebbe rimasta stabile fino al 1990.
Da non dimenticare poi la copertina: dopo le ambientazioni cittadine e di strada dei primi due album, l'illustratore Derek Riggs realizza un'opera iconica in cui Eddie, lo zombie mascotte del gruppo, manovra come una marionetta niente meno che il diavolo in persona. Il risultato di tutto questo sarebbe stato il numero uno in classifica in Inghilterra, risonanza internazionale e, nell'arco degli anni, oltre 14 milioni di copie vendute, diventando l'album più venduto di sempre della Vergine di Ferro.