Sono solo 23 gli atleti apertamente gay presenti a Londra, meno dell’1% del totale. Eppure la capitale inglese poteva essere il posto ideale per fare outing
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C’è un dato statistico molto interessante riguardo a questi Giochi Olimpici: dei 14.690 atleti partecipanti a Olimpiadi e Paraolimpiadi, solo 23 sono apertamente gay e soltanto quattro sono uomini. Si è parlato molto di gay e lesbiche nel mondo dello sport nell’ultimo periodo (con le dichiarazioni di Cecchi Paone e di Cassano agli ultimi Europei di calcio ad abbassare notevolmente il livello del dibattito) e spesso se n’è giustificato l’esiguo numero con una naturale propensione degli omosessuali verso il mondo delle arti e della moda, piuttosto che verso quello dello sport.
Questa spiegazione, però, non è altro che uno stereotipo e, se può essere comprensibile che un adolescente gay che vive emozioni contrastanti possa avere qualche difficoltà in uno sport di squadra, lo stesso ragionamento non è certamente valido per gli sport individuali come ginnastica, equitazione o atletica. Ed effettivamente avendo seguito alcune di queste competizioni, sembra proprio difficile credere che solo lo 0,16 per cento degli atleti sia di diverso orientamento sessuale. Guardando alla storia delle Olimpiadi, è quasi impossibile trovare un atleta gay prima di Tom Waddell, americano del decatlon a Città del Messico 1968. A circa mezzo secolo di distanza ci si aspetterebbe che il mondo dello sport sia ora più aperto e comprensivo, ma la maggior parte degli atleti gay decide ancora di restare nell’anonimato, temendo che fare outing significherebbe rovinare le loro carriere.
I londinesi sono giustamente orgogliosi della loro “cultura del rispetto e della tolleranza” e molti di loro pensavano che ospitare le Olimpiadi potesse essere una splendida opportunità per mandare un messaggio al mondo in questo senso. Amal Fashanu è la sorella di Justin Fashanu, il primo giocatore nero della Premier League ad esser stato pagato più di un milione di sterline e il primo giocatore di qualsiasi colore ad aver mai fatto outing. Era il 1990, Justin morì, otto anni più tardi, impiccandosi. Nei primi mesi di quest’anno, sua sorella ha prodotto un documentario in collaborazione con la BBC, per invitare altri calciatori e sportivi inglesi a fare ciò che suo fratello ha fatto circa 25 anni fa, ma non ha riscosso molto successo.
In questi giorni, molti giornali parlano di ‘occasione persa’ per mostrare a tutti che Londra è una delle città più progressive del mondo, e il dito viene puntato contro il Locog, il comitato organizzativo, colpevole secondo alcune associazioni vicine alle tematiche omosessuali, di non aver dato abbastanza “visibilità” agli atleti gay. Qualcuno ha criticato anche la cerimonia di apertura, in generale apprezzatissima da queste parti, sostenendo che, a parte l’aver mostrato il primo bacio saffico della televisione britannica, non ha dato alcuno spazio alla proverbiale tolleranza della cultura British nei confronti delle comunità gay. Le stesse comunità gay che in questi giorni fanno notare, stizzite, che la popolazione omosessuale di Londra ha contribuito alla preparazione delle Olimpiadi con oltre 500 milioni di sterline di tasse.