Un grande campione e tecnico, ma soprattutto il capostipite di uno stile
Nel decalogo del tifoso di pallone c'è scritto che gli uomini passano e la maglia resta. Sarà. Però nel decalogo della vita, di cui il calcio è una perfetta metafora, c'è scritto pure che ci sono due cose che non cambiano e non cambieranno mai: la famiglia e la squadra. Tutto il resto è passeggero: il lavoro, le case, gli amici, le donne o gli uomini, le idee politiche, tutto quanto. La famiglia e la squadra sono invece quelli dall'inizio alla fine di tutto.
E non c'è nessuno, nessuno come Cesare Maldini che nel palleggio tra la realtà e il campo verde abbia rappresentato tutto questo: l'unità, la famiglia, la dinastia - come qualcuno la definisce - e l'appartenenza calcistica, nel suo caso legata a una bigamia perfettamente sostenibile, quella che mischia il rossonero del Milan e l'azzurro caro a tutti, quello della Nazionale.
O meglio, delle Nazionali, perché Cesarone, nel suo secondo tempo senza calzoncini e tacchetti, è l'altro c.t. per sempre insieme a Enzo Bearzot, guida, amico, fratello maggiore (e vedi anche qui la famiglia: il padre era Nereo Rocco), compagno di panca in quei fantastici pomeriggi di Barcellona, nella notte di Madrid del luglio 1982. Il Maldini del primo tempo da calciatore, forse, non scattò mai così veloce per inseguire l'avversario - anche perché spesso non serviva, lo anticipava con l'eleganza, specialità della casa - come sul prato dello stadio Sarrià, in giacchetta bianca gessata azzurrina, fuori di testa dalla gioia perché i ragazzi suoi e del Vecio avevano stupito il mondo rimandando a casa il magno Brasile di Zico e Socrates.
Gioie federali ripetute poi con la Under 21, tenuta sul tetto d'Europa (dopo anni di delusioni) per tre volte consecutive, la Under - testuale, non "ander", "under", come diceva lui - in cui, nel frattempo, in perfetta logica familiare, era passato dal ruolo di figlio o fratello minore a quello di papà, con figlio biologico e non solo calcistico, Paolo stella nascente della palla mondiale, non solo azzurra o rossonera, compagno di viaggio anche nell’avventura del Mondiale 1998 in quella sfortunata trasferta francese. Anche o soprattutto tramite Paolo, Cesarone ha potuto sempre mantenere intatto il cordone ombelicale con il Milan, che lo andò a pescare 22enne baldo e giovane difensorone alla Triestina: nessuno poteva immaginare, in quella estate del 1954, che salvo una brevissima pausa durata dal 1974 (esonero di Cesare dalla panchina della prima squadra) al 1978 (primo tesseramento di Paolo nei Pulcini), tra i tesserati del Diavolo ci sarebbe sempre stato un Maldini, che oggi si chiama Daniel, secondogenito di Paolo, promettente - dicono - attaccante dei Giovanissimi rossoneri.
Sono passati di lì anche Christian, l’altro erede del grande terzino del SuperMilan di Sacchi e Capello, e ancora prima Pier Cesare, altro figlio maschio del patriarca che per molti pareva persino più talentuoso di quello assurto a fama globale. Pallone, Milan, Nazionale e poi tutti quanti in qualche casa, i Maldini, i sei figli pressoché sempre in quella di Cesare e Marisa, otto sotto a un tetto, una sorta di Famiglia Bradford tuttavia molto poco americaneggiante e saldamente ancorata, alla faccia dei conti in banca e della fama, ai valori e ai punti fermi, ai porti sicuri che solo con gente del tuo sangue puoi trovare.
Di Paolo, considerato uno dei calciatori fondamentali degli ultimi 30 anni, tutti hanno sempre elogiato, oltre all’immensa classe, il rispetto per le regole, l’educazione, l’intelligenza, la correttezza. Indovinate – al di là della personale, positiva indole - da dove viene, chi può averle inculcate. Trieste e quel pezzo di terra a cavallo tra due lande così diverse, e tutto quello che c’è là dentro erano dentro Cesare Maldini ben oltre quell’accento, quella parlata inconfondibile che ha ben contribuito alle fortune di Teo Teocoli (e quanto si incazzò Cesarone): è un posto di gente vera, semplice, abituata a svangarsela, e a godersi con misura le fortune guadagnate tramite il merito. Cesarone un giorno di 62 anni fa ha preso un treno, è arrivato a Milano, ha trovato Marisa e ha seminato se stesso, la sua terra, la sua cultura nel Milan e nel calcio italiano. Il raccolto è stato ed è straordinario, e continuerà .
Tutti – non solo tra le righe di calce di un campo – devono ricordarsi oggi, giorno in cui la grande Quercia muore, di difenderlo, di conservarlo e ampliarlo anche tramite qualsiasi altro cognome. L’importante è che ci sia una famiglia, e una squadra a cui legarsi sempre, nel mondo e nel calcio che cambia. Questo ci ha insegnato Cesare Maldini, Capitano, Campione, Sportivo, Educatore, Figlio, Padre, Nonno. Uomo.