La stella italiana dei San Antonio Spurs incontra i tifosi a Milano: "Ho realizzato il mio sogno e adesso non voglio smettere di vincere"
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Il 2014 sarà sicuramente ricordato come l'anno del definitivo salto per Marco Belinelli. Dopo un lungo girovagare per gli States, con ben cinque squadre cambiate negli ultimi sei anni, il Beli ha trovato la definitiva consacrazione a San Antonio.
A febbraio, durante la tre giorni dedicata all'”All-Star Game”, ha vinto il “Three-Point Contest”, la sfida organizzata ogni anno dall'Nba per i migliori tiratori da tre punti (primo italiano nella storia), ed appena tre settimane fa si è laureato, stabilendo ancora una volta un record per un cestista del nostro Paese, campione della lega dei fenomeni americani, vincendo l'anello che simboleggia, appunto, il trionfo Nba. E nel rivedere le immagini della serie finale contro i Miami Heat del “Prescelto” LeBron James, vinta dagli Spurs 4 a 1, il campione bolognese fatica ancora a trattenere l'emozione: “È stata la realizzazione di un sogno – ammette Belinelli – qualcosa di veramente fantastico”. A Milano, durante un evento organizzato dalla Gazzetta dello Sport, Marco ha incontrato i suoi numerosi tifosi.
Il 15 giugno, giorno della vittoria decisiva contro Miami, rimarrà per sempre sulla tua pelle.
Sì, non mi ero mai tatuato niente prima della vittoria del titolo. A tutti quelli che mi chiedevano perché non avessi nessun tatuaggio, rispondevo sempre che l'avrei fatto solo se avessi vinto il campionato Nba. Ho dovuto farlo per rimanere coerente con me stesso. E adesso vorrei lo facessero anche i miei famigliari e gli amici più stretti.
Quanto sono stati importanti per il tuo successo?
Fondamentali. Solo loro sanno quanto ho sofferto, quanto è stata dura nei primi anni in America. Per questo tutti quelli che mi sono stati vicini dall'inizio devono avere il mio stesso tatuaggio.
I tuoi inizi in Nba, in effetti, non sono stati facili. Hai ricevuto molte critiche.
Sì, ma ho sempre vissuto le critiche come un'ulteriore motivazione: volevo dimostrare a tutti che si sbagliavano sul mio conto. Ho sentito dire tante volte che non ero un giocatore da Nba, che dovevo tornare in Europa. Non ho mai mollato, questa è stata la mia forza.
In quale squadra hai imparato di più, durante la tua avventura a stelle e strisce?
Ogni esperienza mi ha lasciato qualcosa di positivo. La stagione a Chicago, nel 2012/2013, è stata però quella da cui ho preso di più. È stato un passo decisivo, prima di arrivare in un top team come San Antonio, con un grande allenatore, Gregg Popovich.
A proposito, raccontaci un po' del tuo rapporto con il “Pop”.
È un allenatore ed una persona fantastica. È simpatico, divertente e rispetta tutti. Con lui si può parlare di ogni argomento, dal basket alla vita privata. Ho ricevuto anche molti rimproveri, ma è veramente un grande onore poter giocare per lui.
Durante gara 3, nella serie finale contro gli Heat, hai realizzato un canestro determinante, che ha spezzato il ritmo di Miami. È stato il più importante della tua carriera?
Lì per lì non me ne sono neanche reso conto. Ero troppo concentrato sulla partita. Ma tutti mi hanno fatto i complimenti per quel tiro, persino il coach, il giorno dopo, mi ha detto: “Great shot!” (“grande tiro!”). Quindi probabilmente sì, è stato uno dei più importanti.
A San Antonio hai la possibilità di giocare con tanti campioni: Ginobili, Parker, Duncan. Qual è il tuo rapporto con loro?
Sono tutti dei grandi, siamo riusciti a creare un gruppo veramente forte. Con Manu Ginobili parliamo in italiano, sia in campo che fuori. È la nostra arma. Quando avevo 16 anni e iniziavo ad allenarmi con la prima squadra nella Virtus Bologna, lui era lì, ed oggi abbiamo vinto il titolo insieme. Fantastico. Tony Parker è uno dei migliori playmaker della lega. Nel 2003 mi aveva allenato durante un camp a Treviso. Quando ci siamo incontrati la scorsa estate, e gli ho detto che avevo firmato per gli Spurs, ci siamo detti che avremmo vinto l'anello. Durante gara 5, a 3 minuti dalla sirena finale, sono andato da lui e abbiamo ricordato quel momento. Tim Duncan invece è una leggenda, uno dei primi quattro o cinque giocatori di tutti i tempi. Ma non parla mai, con lui basta un'occhiata per capirsi.
Kawhi Leonard è stato nominato MVP delle finals. Chi è stato secondo te il più decisivo per il vostro trionfo?
Sicuramente Kawhi ha disputato delle grandi partite. Aveva un compito difficilissimo, marcare LeBron, e l'ha fatto alla grande. Anche Boris Diaw è stato fondamentale. È in grado di giocare in diversi ruoli, sempre bene. È un campione.
Qualche tempo fa Chris Paul, dei Los Angeles Clippers, ha scherzato chiamandoti "ciccione".
Chris è un grande, ci sentiamo spesso. Io e lui ci chiamiamo “ciccioni” perché non siamo proprio definiti dal punto di vista muscolare: abbiamo un po' di pancetta.
Questa stagione ha portato la vittoria della lega. La prossima?
L'anno prossimo vogliamo vincere ancora. Amo le sfide e amo vincere, già da quando giocavo sui campetti di Bologna. È una sensazione meravigliosa.