un classico dei cartoni

"Kiss me Licia" festeggia i suoi 35 anni, il ricordo di quel periodo in un racconto "dissidente"

Nel 1983 la tv giapponese trasmetteva i primi episodi del cartone che sarebbe arrivato in Italia due anni dopo. Riviviamo quegli anni con la scrittrice Irene Chias

14 Mag 2018 - 09:33
 © da-video

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Sono trascorsi 35 anni da quel marzo del 1983, quando la tv giapponese trasmetteva "Amami cavaliere", una serie a cartoni animati tratta dall'omonimo manga uscito qualche mese prima. Due anni dopo "Amami cavaliere" arriva in Italia dove diventa "Kiss me Licia", e il successo è travolgente, maggiore di quello avuto in Giappone. Noi ricordiamo quegli anni con  "Io e Arturo", un racconto "dissidente" scritto per i lettori di Tgcom24 da Irene Chias.

Io e Arturo
All’inizio furono Elisabetta Viviani e gli Oliver Onions, almeno per me e Arturo. Noi tifavamo per gli Oliver Onions e gli Oliver Onions vinsero. Sandokan era più forte di Heidi. Non parliamo del personaggio, ma della sigla. Fra i protagonisti, la nostra preferenza pendeva leggermente dal lato di Heidi e le caprette. Ma di sicuro fra gli amici del cuore Yanez batteva Peter, anche se Nebbia e il nonno vincevano su Marianna. Adesso però stiamo parlando di canzoni.

In principio quindi furono Elisabetta Viviani e gli Oliver Onions, io e Arturo tifavamo per gli Oliver Onions e gli Oliver Onions vinsero. Poi toccò a Cristina D’Avena e ai Cavalieri del Re. Io e Arturo tifavamo per i Cavalieri del Re, ma questa volta vinse Cristina D’Avena. Stravinse.
Puffi, folletti e tutta una serie di maghette molto più glamour di Stilly e lo specchio magico erano dalla sua parte. Era dalla sua parte anche il cartone animato che segnò la fine della nostra infanzia. Ci rassegnammo presto al suo imperversare, ritrovandoci talvolta a canticchiare “paripampù” invece di “lady dal fiocco blu”. Orzowei era già un ricordo sbiadito. Per fortuna, quando Cristina D’Avena rifece la sigla di Candy Candy, io e Arturo eravamo già troppo grandi per prendercela: la nostra infanzia, come dicevo, era già finita. E ad accompagnare la sua lenta estinzione era stato Kiss me Licia.

C’era voluto un anno perché diventassimo grandi. Era successo alle scuole medie, era successo fra Kiss me Licia e Love me Licia. Era bastato qualche mese perché la sigla finale dei cartoni animati cessasse di portare con sé tutta l’angoscia del ritorno a una realtà fatta di bui pomeriggi invernali e una montagna di compiti ancora tutti da fare. Le angosce adesso erano altre, e di Mirko, Satomi e Marrabbio ce ne fregavamo ampiamente. Eppure di Kiss me Licia e Love me Licia bisogna parlare, perché segnarono un passaggio importante e una fondamentale presa di coscienza nella nostra vita. Licia era il nome italiano dato a Yaeko Mitamura detta Yakko, il personaggio principale di un manga ambientato a Osaka e del successivo anime ambientato a Tokyo.

Tutti i nomi originali del cartone animato furono tradotti in italiano in maniera più o meno plausibile. Tutti tranne uno. Il bambino sovrappeso Haskizo diventò Andrea; il suo gatto Juriaano diventò Giuliano; Go, cantante dei Bee Hive innamorato di Licia, venne ribattezzato Mirko; l’esasperante, collerico e goffo padre di Licia, Shigemaro Mitamura, si chiamò Anacleto Marrabbio. Il tastierista della band di Mirko però si chiamava Satomi, che in giapponese è un nome da femmina o un cognome. E Satomi restò. Il prologo della storia, pedissequamente illustrato dalla sigla, è che “un giorno di pioggia/Andrea e Giuliano/incontrano Licia per caso,/poi Mirko finita la pioggia/incontra e si scontra con Licia e così/il dolce sorriso di Licia/nel loro pensiero ora c’è”. Il cuore di Licia era diviso fra Mirko, che aveva ricci capelli biondi con uno sproporzionato ciuffo rosso, e Satomi, che aveva una lunga chioma viola-blu e somigliava vagamente a Brian May (il chitarrista dei Queen, per chi non lo sapesse).

Il successo di questo cartone animato fu tale che l’anno dopo la Fininvest girò una serie televisiva sequel, con nientemeno che Cristina D’Avena in persona nel ruolo di Licia. Un atto dovuto. Il successo dell’anime in Italia probabilmente fu garantito anche alla sigla cantata da Cristina e alla sua interpretazione: mielosa quando serviva; ironica quando richiesto ma mai sarcastica; infantile ma mai vacua, piuttosto piena di intenzione. A quel punto però, io e Arturo e i nostri compagni di scuola andavamo già per i tredici anni.

Davvero di Licia e dei Bee Hive non ce ne fregava niente. Mentre passeggiavamo al corso e conoscevamo i ragazzi più grandi, ci arrivava solo un’eco lontana dai televisori accesi dei nostri fratelli più piccoli. Di lì a qualche mese io e Arturo ci saremmo iscritti a scuole diverse, in seguito lui sarebbe entrato in politica con la Democrazia Cristiana, sulle orme di suo padre, e io mi sarei spellata i polpastrelli nel tentativo vano di diventare una brava violinista. Se la nostra infanzia finì con Kiss me Licia, la nostra amicizia finì con Love me Licia.

Anni dopo, Domenico, un nostro compagno di scuola, andò a studiare alla Bocconi di Milano e in seguito venne assunto a Mediaset. Io ormai vivevo da anni a Londra dove, abbandonata ogni velleità artistica, insegnavo italiano per due lire. In particolare avevo un giro di clienti giapponesi squattrinati ma amanti dell’Opera che volevano capire “Là ci darem la mano” e saper cantare “Figaro qua, Figaro là”. Quindi la musica continuava a perseguitarmi mentre io mangiavo male e deperivo.

© tgcom24

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Arturo invece era ingrassato. Attorno ai 24 anni aveva avuto una specie di rigonfiamento facciale che gli aveva lasciato due guance piene, a stento contenute dalla pelle del viso e come sul punto si esplodere. Era stato eletto consigliere comunale di uno dei partiti epigoni dell’estinta DC, ma adesso non ricordo quale. Andava in giro con la cravatta e la macchina bella. E sudava sempre.

Un giorno, per le vacanze di Pasqua, io e Domenico ci incontrammo al corso. Fu molto affabile e mi fece grande festa. Io rientravo al paese dopo mesi e mesi di grigio londinese, e mi sembrava un sogno. Ci fermammo in prossimità di un tavolino al quale erano seduti Arturo e la sua giovane fiamma, una cugina di Domenico che ai tempi di Kiss me Licia andava probabilmente all’asilo. Ormai io e Arturo ci salutavamo a malapena, ma alla fine ci sedemmo tutti insieme al suo tavolo.

All’inizio, un po’ nell’imbarazzo generale dovuto al vuoto d’argomenti, Domenico fra mille altre cose raccontò che l’attore che interpretava Mirko era receptionist dove adesso lavorava lui. Il ghiaccio iniziò a sciogliersi al sole della primavera, e Arturo sembrò lentamente trasformarsi. Chiese se Domenico lavorasse a Palazzo dei Cigni – che nome da sogno – proprio quello a cui si scrivevano le letterine a Uan. Cosa che, mi preme dire, noi non avevamo mai fatto. «No, è a Palazzo Canova. Sempre Milano 2» rispose Domenico. Milano 2, per noi un nome e tante immagini associate al nostro passato e a una Tokyo disegnata.
«Ma com’è? E i capelli di che colore ce li ha?» Iniziai a scorgere in quell’ometto imbolsito e spaccone il mio bel compagno di giochi, il suo entusiasmo e la sua semplicità. Domenico si mise a ridere e disse: «Di certo non ce li ha gialli col ciuffo rosso. È un bel tipo, uno tranquillo. Non si sente un divo perché è Mirko dei Bee Hive». Mentre li ascoltavo parlare, mi sentii investita da tutta la dolcezza della mia infanzia di provincia.


Irene Chias ha esordito nel 2010 con il romanzo "Sono ateo e ti amo" edito da Elliot. Nel 2013 per Mondadori ha pubblicato "Esercizi di sevizia e seduzione" che ha vinto i premi Mondello opera italiana e Mondello giovani nel 2014. A novembre 2016 ha pubblicato "Non cercare l'uomo capra".

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