televisione

In ricordo di Angese

Telebestiario di Francesco Specchia

13 Feb 2008 - 09:16

Scusate, questo è un Telebestiario un po’ particolare. Il signore di cui vorremmo parlare, mentre le lacrime ingolfano gli occhi e un moccolo rischia di sgocciolare sul pc, aveva un rapporto di amore/odio con la tv: per Raidue aveva realizzato film d’animazione di cinque minuti, aveva un progetto per Minoli sui “Grandi Vecchi” e la sua presenza, negli ultimi anni, era relegata ai tg dell’Umbria. In realtà, Sergio Angeletti in arte Angese è stato uno dei più grandi maestri che la satira italiana abbia mai avuto.

Per i più giovani (che lo conoscevano, però, in quanto pioniere della satira web, il suo sito è ancora attivo) Angese fu giornalista, e genio grafico a 360°. Il migliore in Italia. Solo che ogni tanto bisognava ricordarglielo. Angese, morto l’altroieri a 56 anni per un tumore al colon bastardo e fulminante, era per noi un fratello maggiore. Era incredibile. Perfino l’ultima volta che l’avevamo abbracciato, era riuscito a rimanere coerentemente il cazzone di sempre. Mezz’intubato in un ospedale di Perugia, sfinito (dopo il terzo ricovero il suo fisico da John Wayne era ridotto a un mucchietto d’ossa); con la morfina che gli si scorreva dentro; gl’infermieri che l’assediavano; la compagna Ceres che gli recitava una poesia, e un vicino di letto in mutande ci sussurrò in romanesco: “…qua so’ matti, me pare d’essere in un film de Almodovar”.

Stava morendo, e aveva ancora voglia di prendere per il culo. Ecco, Sergio, era questo: l’arte di spiazzare anche la morte, l’anarchia e il genio in grado –come diceva Churchill- passare da sogno in sogno e da fallimento in fallimento senza mai perdere l’entusiasmo. Questo era Angese. Immenso come le campagne di Gubbio dove s’era esiliato ad allevare cavalli, cacciato dai grandi editori che avevano tentato (talora legittimamente) di metter becco sulla sua arte. Romano di nascita, amante del convivio e delle sottane, Angese esordì come giornalista a Paese Sera (memorabile la scritta che fece trovare una mattina sulla soffitto della redazione a Giampiero Mughini, che, per estatico vezzo intellettuale, fissava gli occhi sempre verso l’ alto: “A Mughì, ma che cazzo guardi?”).

Ma assurse alla gloria come co-fondatore del Male assieme a Pino Zac, Vauro , Sferra, Fo, Vincino, Pazienza. In osteria, tra la carta oleata del salame e bisacce di Chianti, aveva intuizioni inarrivabili. Come il mescolare la satira militante con le inchieste giornalistiche alla Canard Enchainé; o creare una saga sul duo degli anni 80 (“Le avventure di Craxi e Martelli”) e i ritratti dei “Minori del Novecento” che infestavano la politica italiana dal “seboso” Mussi a “Folena il braccio Armani di D’Alema”, roba che presto abbondò –dopo Tango , Linus, Cuore- per la satira economica sul Foglio e sul web. Angese era un rompicoglioni invincibile. Non aveva moltissimi amici, ma erano di qualità: Andrea Pazienza, col quale cavalcava, in groppa al suo stallone Astante, tra i boschi di Montepulciano; Vincino, che da quarant’anni cercava di convincerlo delle qualità taumaturgiche delle droghe leggere (lui non s’era mai rollato uno spinello), Jacopo Fo che l’ha assistito fino all’ultimo, i frequentori dei bar di Santa Cristina di Gubbio, dai quali attingeva per le sue storie.

S’era tenuto i nemici per la vecchiaia. Parecchi nemici. Alla fine degli anni 80 fu il primo a discostarsi dalla satira militante e a mandare a quel paese il direttore de L’Espresso Rinaldi per cui lavorava. Vinta la causa di lavoro mandò al giornale la foto della villa che aveva comprato con quei soldi, una sola la frase d’accompagnamento: “Grazie”. Poi se la prese con l’allora potentissimo Maurizio Costanzo ( “L’assedio di Costanzinopoli”, 98) e con la Telecom (“Sono un azionista Telecom”, ’97). E ancora – nel ’97, dirigendo un giornale misconosciuto “L’Eco della Carogna” (collaboratori, tra gli altri, Staino, Lubrano, Vincino, Serra, Travaglio, Saviane e il sottoscritto)- attaccò i pubblicitari “che riempiono i giornali di marchette” e il Gratta& Vinci del quale scoprì la tossicità chimica facendo intervenire la Procura della Repubblica.

Ottenne, grazie a quel giornale durato solo 8 mesi, il suo secondo Premio Satira Politica. Angese riteneva la maggior parte dei giornalisti, compresi quelli del Resto del Carlino di cui era il vignettista e che tenevano a stroncargli ogni iniziativa (specie su Prodi, ma anche su Berlusconi e su chiunque fosse al potere), dei travet illivoriti. Non era di sinistra, ma quando Il Giornale ai primi del 2000 cercò di affidargli un progetto, lo rigettò in malomodo. Lo stesso fece con Repubblica, e con Beppe Grillo che riteneva eccessivo, e detto da lui era curioso. Gli piaceva Vittorio Feltri che per lui era “un pirata spregiudicato con cui sarei andato d’accordo”, ma non si erano mai incontrati. I suoi racconti erano esilaranti.

Ricordiamo le sue gare con quell’altro pazzo di Andrea Pazienza su chi disegnava meglio Pertini, o la sua teoria per far sparire la corporazione dei notai: “Per eliminare i notai si farebbe presto. Sono una corporazione del 1200? E allora obblighiamo che loro e i loro figli si vestano sempre come paggetti del 200. I figli, a scuola, rimarrebbero traumatizzati,e il mestiere si esaurirebbe in una generazione…”. Un genio con l’entusiasmo di un bimbo, che credeva nel giornalismo senza marchette e nel rispetto del lettore. Era un vulcano di creatività, i cui lapilli spesso venivano sepolti dalla pigrizia. Ci sentivamo almeno una volta al mese e ogni volta diceva: “Francè ho un grande progetto, preparati”. Noi ci preparavamo, scendevamo finoal suo eremo nel cuore dell’Umbria, e ci spatasciavamo di risate e tagliatelle alla cacciagione.

I progetti slittavano sempre alla volta successiva. Però andarlo a trovare, vi assicuro, per il nostro riequilibrio psichico era un toccasana. In quei boschi, e davanti alla sua irruente coerenza (anche troppa, la diplomazia non era il suo forte) di non piegarsi davanti a niente e nessuno riacquistavamo il senso perduto di questo porco mestiere. Recentemente gli era presa la flippa di mollare tutto, comprare una barca e vela e girare per il Mediterraneo.

Era una delle suoi leggendari balzi di fantasia, ma era giusto che li avesse. La frase d’addio, di una dignità laica ed estrema è stata: “Stanotte ho sognato Andrea (Pazienza, ndr). Mi diceva: vecchio mio, ti sto aspettando, ho preparato tutto. Saluta la vita ma non mandarla affanculo come al solito perchè ti ha dato tanto, in fondo hai campato come hai voluto. Allora salivo a cavallo e sparivo nel buio…”. Verrà cremato, secondo le sue volontà e le sue ceneri sepolte vicino Alcatraz, a Gubbio, sotto la testa in pietra del suo Astarte. Jacopo Fo ci informa che chiunque vorrà fermarsi a parlare, lui sarà lì ad ascoltare. Lo ha promesso. Non averti più tra i piedi, caro Sergio, è molto dura…

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