Nicola Fontana (EY) passa in rassegna le conseguenze del Covid-19 su tre sfere della nostra quotidianità e prova a tracciare le coordinate dell'immediato futuro
Il Covid-19 è stato un potente catalizzatore dell'innovazione in un Paese come l'Italia che da sempre fa fatica a stare al passo con i tempi e a declinare il cambiamento nei diversi settori. A fare il punto sulle implicazioni della pandemia per occupazione, formazione e shopping è Nicola Fontana, Digital Content Engineering leader per EY, che da tempo si occupa di Digital Transformation per aziende e organizzazioni.
Con il lockdown gli italiani hanno scoperto lo smart working. Serviva un evento catastrofico per capire il valore dell'innovazione?
Il cambiamento non è mai confortevole, ci sono tante resistenze intrinseche, più o meno consce. Quando una cosa funziona non c'è molta spinta a cambiarla. Invece questo momento di discontinuità ha generato una stringente necessità di cambiare. La classica curva di adozione dell'innovazione ideata da Everett Rogers è diventata uno scalino. Ma perché lo smart working funzioni e non sia solo telelavoro devono cambiare gli obiettivi e le strategie delle aziende, deve verificarsi un grande cambiamento culturale.
Le acquisizioni di questi mesi saranno permanenti?
Non penso che si tornerà totalmente indietro quando l'emergenza sarà finita: alcune novità sono già entrate nelle abitudini delle persone ed è stata forzata la resistenza mentale al cambiamento. Ci siamo accorti che molte di queste innovazioni sono efficienti. Terminata la face acuta smetteremo di avere paura di muoverci. Il new normal avrà una componente digitale molto più alta del pre Covid.
Le aziende e le organizzazioni cosa hanno capito da questo stress test su scala globale?
Le aziende stanno ancora imparando. Una parte dell’apprendimento ci sarà in un momento successivo al ritorno alla normalità. In generale le realtà lavorative hanno capito alcune cose sul bilancio, per esempio sull'importanza del cash flow o sui modelli di business precedenti che erano sbagliati sotto alcuni punti di vista, o che eravamo indietro rispetto alla digitalizzazione. In questo momento esistono due scuole di pensiero: da una parte quella di chi vuole guardare solo alla cassa per non essere spazzato via dalla crisi e non fa fatica a tagliare i dipendenti per ottenere questo scopo; dall'altra quella di chi valorizza le persone in quanto asset strategici. Qual è la visione giusta? Secondo me hanno ragione i secondi.
Quali professioni nasceranno e quali scompariranno?
La crisi non ha mostrato nulla di nuovo, già due anni fa dicevamo che il 30% delle persone sarebbero state impegnate in professioni che non esistevano ancora. Nel futuro avranno più spazio le professioni tecniche di cui in italia c’è una mancanza cronica, penso per esempio ai professionisti dei dati. Manca ancora la comprensione olistica del digitale. Tutti dicono digitale ma ognuno lo legge a modo suo e in modo parziale. Sono sempre più convinto che digitale sia una dimensione diversa, non solo una piattaforma, lo specchio numerico della nostra realtà che è invece per sua natura continua. Le aziende avranno sempre più bisogno di persone capaci di gestire i dati statistici, di ingegneri, ma anche di persone che abbiano visione in grado di guidare questo strappo brusco che il Covid è stato. Il profilo che spero emerga in futuro è quello di una figura di snodo tra i saperi, una sorta di visionario. Sono però, convinto che le grosse istituzioni e le grandi aziende debbano valorizzare chi ha gli strumenti e accompagnare chi non ce li ha. Sarebbe bello tornare a un modello di azienda olivettiana che accompagna la forza lavoro verso una nuova consapevolezza digitale.
La didattica online non ha funzionato per niente. Cos'è mancato e cosa si può fare per digitalizzare davvero la scuola italiana?
Quando parliamo di aziende che si sono convertite allo smart working parliamo di una porzione privilegiata di popolazione, con un pc aziendale, una chiavetta per la connessione etc. Molto del fallimento della didattica online deriva dal fatto che tanta famiglie non erano attrezzate: una famiglia su tre non aveva pc, meno del 50% dei ragazzi possedeva un computer in casa e spesso era condiviso con fratelli o genitori. Dall’altra il corpo insegnante non era formato per la Dad. Le sperimentazione della didattica a distanza si facevano da 10 anni ma senza troppa convinzione. e tutto è stato lasciato all'iniziativa dei singoli insegnanti. Ecco spiegato il disastro scolastico degli ultimi tre mesi.
Anche i negozi fisici hanno dovuto fare i conti con la smaterializzazione del contatto con la clientela. Come cambierà il modo di fare shopping nel medio-lungo termine?
Il 77% di chi ha fatto acquisti online nel periodo del lockdown lo faceva per la prima volta. Nel 2020 l’ecommerce crescerà del 55% ma nonostante questo non credo che il futuro sarà fatto solo dall'online. Omnicanalità è un altro termine abusato insieme a digital, ma forse merita di essere considerata la dinamica che tale parola evoca. Adesso l’approccio per condurre il consumatore al prodotto è cambiato, non ci sono macro step di contatto tra il brand e il consumatore ma si parla di micro momenti. Il prodotto e il brand entrano nella sfera del consumatore attraverso tanti ambienti (i social, le recensioni, i banner, le email, etc). Le marche devono accompagnare allora il cliente in tanti momenti e in tanti modi diversi, non bastano più il negozio e il sito. Dobbiamo pensare a un sistema molto integrato tra il fisico e digitale. Lo store sarà sempre meno un magazzino, sempre più il cliente ci metterà piede con un'idea precisa e quindi bisognerà cambiare le modalità di interazione e la formazione del personale. Penso che la dimensione fisica dello shopping rimarrà a fianco del digitale e dovrà interagire con esso. In questo momento siamo ancora indietro nell’integrazione fisico e digitale: soltanto il 14% delle 279 maggiori insegne di retail dà la possibilità di ritirare in negozio quanto ordinato online. Il dato la dice lunga sull'enorme lavoro che dobbiamo ancora fare.