Approfittando del lavoro agile, molti fuori sede sono tornati a “casa”, per godersi gli affetti e i luoghi di appartenenza senza rinunciare al lavoro
Tornare nella propria regione, soprattutto al Sud, continuando a lavorare per le stesse aziende (in altre parti d’Italia o del mondo). È il fenomeno del South working. L'emergenza coronavirus ha reso necessario ricorrere alla modalità di lavoro dello Smart working, fino a qualche mese fa poco utilizzata nel nostro Paese. Una pratica ormai diventata consuetudine per milioni di italiani. Ora dallo Smart working si è passati al South working. Approfittando del lavoro agile, molte persone sono tornate a “casa”, per godersi gli affetti e i luoghi di appartenenza senza rinunciare al lavoro.
Parliamo di un effetto della pandemia che potrebbe rivelarsi decisivo per il futuro. Alcuni potrebbero infatti decidere di fare del South working una modalità di lavoro definitiva e, dunque, di restare nella propria regione anche se la sede di lavoro è in un'altra. È uno degli scopi di South Working – Lavorare dal Sud, un progetto di Global Shapers Palermo Hub volto a diffondere la possibilità di lavoro agile da dove si desidera, in particolare dalle regioni del Sud. TgcomLab ne ha parlato con l'ideatrice dell'iniziativa, Elena Militello.
South Working, ovvero lavorare dal Sud - Elena ha 27 anni. Nel 2010, ha lasciato la sua città natale, Palermo, per trasferirsi a Milano. Quando è iniziata l’emergenza coronavirus, lavorava all’Università del Lussemburgo come ricercatrice (si occupa di procedura penale comparata). A fine marzo, è rientrata a Palermo e ha iniziato l’esperienza del South working. Non solo. Ha anche deciso di voler rimanere nella sua città a tempo indeterminato. Da qui è nata l'idea del progetto South Working – Lavorare dal Sud, al quale adesso collaborano circa venti professionisti. "Tengo a precisare - spiega Elena - che il Sud è inteso come concetto relativo, siamo tutti il Sud di qualcun altro. Lo scopo del progetto è infatti quello di studiare e agevolare il fenomeno dello Smart working localizzato in una sede diversa da quella del datore di lavoro, qualunque essa sia".
Il progetto mira ad aiutare gli impiegati che vogliano intraprendere questa modalità di lavoro e intende formulare delle proposte di policy in questo campo. "Stiamo avendo contatti con diverse aziende - racconta l'ideatrice - e valutando la fattibilità del progetto. Stiamo, inoltre, censendo tutti i luoghi che in qualche modo possano diventare spazi di coworking, hub insomma, presidi sociali sul territorio. Un modo per vivere anche la socialità. Non da ultimo, abbiamo realizzato un questionario per comprendere quali siano le caratteristiche della platea dei potenziali interessati al progetto. I dati verranno resi noti in seguito, ma, per ora, posso dire che il feedback è molto positivo".
L'obiettivo di lungo termine dell'iniziativa è quello di stimolare l'economia del Sud, aumentare la coesione territoriale tra le varie regioni d'Italia e d'Europa e creare un terreno fertile per le innovazioni e la crescita al Sud. "Le leggi non mancano, bisogna solo applicarle", conclude Elena.
Le conseguenze - Secondo i dati diffusi da Il Sole 24 Ore, se la soluzione del South working diventasse definitiva, Milano - città "lavoratrice" per eccellenza, che ha accolto molti cittadini del Sud - perderebbe migliaia di impiegati. La capitale economica dell'Italia, in 20 anni, ha infatti guadagnato circa 100mila residenti provenienti da altre regioni, soprattutto dal Mezzogiorno. Ma ora, dopo la pandemia, e con la possibilità che lo Smart working venga prolungato in misura massiccia almeno fino a dicembre, tanti potrebbero abbandonare definitivamente il capoluogo meneghino per tornare nelle zone di origine e lavorare da remoto. E se meno lavoratori e residenti da un lato provocano meno code in auto, dall'altro portano anche meno clientela per bar e ristoranti nelle pause pranzo e meno richieste per il mercato immobiliare.
Un South working letterale - C'è anche chi il South working lo ha inteso e sperimentato in senso letterale: lavoro dal Sud. Come Betty Codeluppi e il suo compagno Lorenzo Guerra, che non sono originari del Sud (lei è emiliana, lui bolzanino e abitano a Milano da 25 anni), ma che hanno deciso di lavorare in Smart working dalla Campania.
"Dopo un periodo trascorso a Vietri sul Mare, il 10 giugno abbiamo affittato una casa molto spaziosa a Salerno, dove abbiamo una stanza a testa per lavorare - racconta a TgcomLab Betty, proprietaria di uno show-room a Milano, ora chiuso per via del coronavirus - È una soluzione ideale. Il nostro è un caso particolare. Non abbiamo nessun legame col Sud, se non qualche amico che vive qui. La decisione di lavorare da Salerno è stata presa impulsivamente. Rimarremo qui fino ai primi di settembre, poi torneremo a Milano perché mia figlia deve tornare a scuola. Diciamo che è un South working a tempo determinato".
Il South working può rivelarsi una soluzione definitiva? Secondo Betty, sì. "Ho sentito tante obiezioni rispetto alla possibilità di rendere definitiva questa soluzione - spiega -. Parlando personalmente, tutto questo divario, sia a livello di infrastrutture che di funzionalità della rete, non l'ho riscontrato. Per il momento mi sto trovando molto bene, sto vendendo online e cercando di farmi dei contatti anche qui. È un'esperienza positiva e ci metterei la firma a ripeterla il prossimo anno. Anche il mio compagno è molto contento, lui oltre a fare formazione - insegna comunicazione - ha un’azienda di commercio internazionale di cibo italiano. Qui sta cercando e ha trovato dei contatti con delle aziende locali per vendere i loro prodotti soprattutto nel mercato tedesco".
E il tempo libero? "Nel tempo libero, vediamo i nostri amici, prendiamo l'aperitivo, esattamente come faremmo a Milano, ma pagando un terzo. Inoltre, facciamo delle passeggiate davanti al mare. Quando possiamo prendiamo il treno e andiamo a visitare i luoghi vicini: in 5 minuti sei a Vietri, in 15 sei a Cava de’ Terreni. Ora stiamo progettando una - vera! - vacanza in Cilento".