Anna Monaco aveva iniziato da sola a dare una mano alle forze dell'ordine e ai medici, ma adesso è aiutata da 12 volontarie
"Buongiorno, siamo qui per le mascherine". La prima volta che Anna Monaco ha sentito queste parole nel suo atelier in provincia di Salerno, ha pensato che si trattasse di una delle tante richieste di materiale per la protezione personale che ha ricevuto nell’ultimo mese. Presa in mano l’agenda per annotare il numero di mascherine richiesto, Anna si è sentita rispondere "siamo qui per confezionarle". È così che si sviluppa un progetto benefico di sole donne: cittadine e lavoratrici che da casa si impegnano a realizzare mascherine da donare alle forze dell’ordine, ospedali e protezione civile.
Anna Monaco, proprietaria di un atelier di abiti da sposa, aveva iniziato da sola. "La mattina dopo il lockdown nazionale mi sono chiesta cosa potessi fare per rendermi utile – racconta -. Quella notte non ero riuscita a chiudere occhio e appena mi sono alzata dal letto ho pensato che la risposta l’avevo già: dovevo confezionare mascherine".
Da qui l’inizio di intere giornate trascorse a cucire nell’atelier vuoto. Battipaglia conta circa 50mila abitanti, eppure le voci circolano in pochissimo tempo. Così l’iniziativa di Anna ha fatto il giro delle testate locali e dopo qualche giorno ha iniziato a ricevere le prime richieste di Protezione Civile e Forze dell’Ordine locali. "Un’immagine che non dimenticherò mai è probabilmente quella del poliziotto che sulla porta del mio atelier si toglie il cappello in segno di rispetto", dice Anna in una lunga conversazione telefonica.
La task force di donne volontarie nasce spontaneamente e cresce su whatsapp. Si sviluppa in un momento decisivo per l’atelier di abiti da sposa che a un certo punto della sua nuova attività, si è trovata in difficoltà. "Ho continuato ad utilizzare le stoffe che mi sarebbero servite per i miei vestiti – spiega la titolare -. Non ho avuto bisogno di una riconversione, anche perché non vendo quello che confeziono, è tutto a titolo di beneficenza. Quando ho iniziato, le richieste che mi sono arrivate erano troppe per il lavoro di uno solo, così a un certo punto mi sono detta che avrei dovuto abbandonare. Invece poi la vita ti dà sempre un segnale: appena questo pensiero mi ha attraversato la mente, sono arrivate le prime volontarie. Soltanto due o tre di loro sono mie amiche storiche, altre non le ho mai viste. Abbiamo un legame sancito dalle mascherine. Ora come ora mi viene da dire che sia uno dei più significativi che potessi pensare di costruire come essere umano".
Il progetto è autofinanziato. Quando le offerte libere dei cittadini non coprono i costi di produzione, Anna mette sul tavolo i propri soldi. Eppure, spiega, tutto quello che ha investito è sempre tornato indietro, in un modo o nell’altro. Il suo lavoro e quello di altre dodici donne è riuscito a varcare i confini regionali: adesso, le mascherine prodotte da Anna Monaco Couture vengono spedite su tutto il territorio nazionale. Bergamo, Milano e alcune delle città del Nord più colpite dall’emergenza Covid hanno fatto richiesta di rifornimenti.
Il tutto sempre grazie al passaparola. "Devo ringraziare alcuni amici che hanno fatto il mio nome a privati cittadini o addirittura agli ospedali. Anche dalle principali strutture di Napoli mi stanno arrivando richieste d’aiuto. Qui la problematica maggiore riguarda proprio i medici che sono quelli più esposti all’emergenza senza le adeguate protezioni. È per questo che ho deciso di non vendere le mascherine. Il prezzo di mercato sarebbe di cinquanta centesimi circa, molti altri hanno deciso di alzare i costi fino a cinque euro. Non ho dovuto affrontare una riconversione, perché la mia azienda era già volta al confezionamento di stoffe, quindi mi è sembrato giusto intraprendere un’opera di beneficenza".
Sui progetti per il futuro, Anna ha le idee chiare: a fine emergenza tornerà alla sua attività di atelier per abiti da sposa. Per ora però, la sua azienda le fa incontrare tante persone e così è costretta a passare la quasi totalità del suo tempo nel laboratorio, in un autoisolamento forzato un po’ diverso da quello di tanti altri italiani. "Questo periodo mi ha regalato tante storie e tanti frammenti di vita che altrimenti non avrei mai conosciuto. Mi ha tolto però i progressi di mio nipote che non vedo da più di un mese. Con tutta la gente che incontro ogni giorno, poi, sarebbe impossibile pensare di andare a trovarlo".
Si tratta di un sacrificio, e al telefono confessa di non aver ancora capito se il gioco vale la candela. Le emergenze vanno e vengono e io non sono un’esperta, ma immagino valga anche per i virus, no? Quando tutto questo sarà finito, avrò guadagnato tanto e probabilmente mi sembrerà di aver perso tutto quello che conta: la vita del mio nipotino o le esperienze della mia famiglia. Nonostante la collaborazione e la vicinanza, alla fine della giornata sei davvero da solo. Molto spesso poi ventiquattro ore non ti bastano: mi capita di tornare a cucire anche in piena notte. Siamo tutti un po’ soli adesso. Ci scrutiamo a distanza di sicurezza e l’unico modo per ricordarmi che non sono un robot è proprio il cappello tolto in segno di reverenza da un poliziotto. Mi ricorda che siamo tutti incastrati nelle nostre solitudini individuali, ma che in ogni casa c’è sempre una finestra dalla quale affacciarsi".
Articolo realizzato in collaborazione con il master biennale in giornalismo della IULM, contenuto a cura di Gabriella Mazzeo.