Dieci anni fa Maria Grazia Mattei fondava Meet the Media Guru: "In Italia c'è un ritardo infrastrutturale e culturale, ma almeno siamo partiti"
"Volevo parlare del digitale guardando all'impatto che le tecnologie hanno sulla nostra vita quotidiana. E parlarne anche ai non addetti ai lavori, che avevano già costruito un network autoreferenziale". Pisana, classe 1950, Maria Grazia Mattei è una delle pioniere della cultura digitale in Italia. Nel 2005 ("Facebook era appena nato, ma avevo capito che si trattava di qualcosa di grosso") ha fondato Meet the Media Guru, una comunità di appassionati di digitale e tecnologia e insieme una piattaforma di eventi legati all'innovazione.
"Volevo organizzare un format coerente con le questioni aperte - racconta a Tgcom24 - non un seminario tradizionale né un festival, ma un "evento diffuso" che per ogni tema raccogliesse le voci più autorevoli in quel momento". In dieci anni ha organizzato incontri con protagonisti dell'innovazione nel mondo, come il direttore creativo della Pixar John Lasseter o intellettuali del calibro del sociologo Zygmunt Bauman. Adesso la fondatrice di Meet the Media Guru è pronta a fare il punto dei primi dieci anni di attività, naturalmente con lo sguardo proiettato al futuro.
Com'è cambiato il pubblico?
È cambiato nel numero, dalle 2 mila persone che inizialmente facevano parte della nostra community alle 40 mila di oggi. Però è trasversale e intergenerazionale: c'è chi viene per motivi direttamente legati alla sua professione e chi per semplice curiosità. Insomma, non c'è un target unico. D'altronde la questione dell'innovazione ci riguarda tutti, padri analogici e figli digitali.
A che punto è l'Italia nel campo del digitale?
Rispetto all'Europa - non parliamo nemmeno degli Stati Uniti - siamo terribilmente indietro. La vera esplosione del digitale, da noi, è avvenuta non più di quattro anni fa. L'Agenda digitale europea ci ha catapultati in una nuova dimensione e il ritardo è doppio: infrastrutturale e culturale. Non so come finirà la partita della banda larga, visto che il governo, di fatto, scarica la maggior parte dei costi di realizzazione sui privati. Quello che serve davvero, però, è un cambiamento di mentalità, di modelli organizzativi e produttivi.
Ad esempio?
Ci sono ancora albergatori che pensano di essere a posto perché si sono fatti il sito. Non capiscono che il turista è cambiato e cerca servizi sempre più sofisticati. Non dico che alle imprese serva un'alfabetizzazione digitale, ma quasi. Del resto gli altri Paesi hanno costruito apposta splendidi centri di formazione, collegati gli uni agli altri. Noi non abbiamo nessun centro, non siamo in collegamento con nessuno. Ma lamentiamoci troppo: siamo in ritardo, ma almeno siamo partiti.
Guardiamo avanti, allora: quali futuri sviluppi si intravedono?
Direi sicuramente quello dell'intelligenza collettiva e della e-democracy. Vedo una nuova attenzione verso le pubbliche amministrazioni, non c'è più l'idea di essere sudditi ma di partecipare alla gestione della cosa pubblica. Poi c'è ciò che si chiama knowledge commons: significa che informazioni e dati vengono gestiti in comune. Per esempio, una ricerca sul campo della sanità può coinvolgere non solo i medici, ma anche altri soggetti in qualche modo coinvolti, come i pazienti. Ancora, è interessante la nuova dimensione del lavoro open source, per cui la rete sta diventando un laboratorio "capillare" esteso in tutto il mondo. Un'azienda ha bisogno di un polimero particolare per la sua produzione? Su internet c'è sicuramente chi glielo troverà.
Sono modelli di lavoro sostenibili economicamente?
Qualcuno ci perderà, altri ci guadagneranno. Cambierà il business, bisognerà riscrivere le leggi e ripensare i regolamenti sindacali. A un certo punto, comunque, il mercato si reinventa per forza: pensiamo a quello della musica in streaming. Dobbiamo metterci in testa è che questa non è una moda passeggera, ma un cambiamento inarrestabile.