Il giocatore tipo ha 30 anni e nel 45% dei casi è donna
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Il rapporto Eurispes appena uscito mostra i videogame sotto una nuova luce: "I multiplayer games, vale a dire quei giochi che coinvolgono più players, che prevedono partecipazioni da qualsiasi posto, creano social-communites, mettendo in discussione l'altro stereotipo: l'isolamento sociale".
Non solo. Diversi studi, non in ultimo l'analisi condotta dall'Associazione americana psicologi, sottolineano i benefici del videogioco non solo in termini di capacità di coordinazione motoria ma anche di abilità cognitive. Orientamento spaziale, ragionamento, memoria e percezione sono gli ambiti di influenza positiva del videogioco.
È la tridimensionalità ad aiutare nell'orientamento, i giochi strategici nel problem solving danno una spinta alla creatività. Giochi semplici portano invece benefici all'umore ed essere battuti in gioco comporta un rafforzamento della capacità di superare le difficoltà anche nella vita.
Certo, serve un uso appropriato del mezzo, un'educazione "videoludica" e un'alfabetizzazione sin dalla più tenera età, compiti propri della famiglia e dell'istituzione scolastica.
Sviluppare un senso critico dell'uso del mezzo è fondamentale. Gli adolescenti, tanto per dire, poco o nulla sanno del codice Pegi, ossia della catalogazione per età di ciascun gioco, ma certo che se un genitore regala a un bambino un game con codice Pegi 18, ossia violento, non assolve al proprio compito. La disinformazione tra i diretti giocatori e tra gli adulti è il primo ostacolo da rimuovere.
Sorprende anche l'identikit del giocatore tipo italiano, in gran parte adulto: l'età media è di 30 anni, gli under 18 sono il 32% della popolazione dei gamers, mentre gli over 36 sono il 36% del totale. E per il 45% sono donne. Nel 2010 il volume d'affari a livello mondiale è stato di 25,1 miliardi di dollari, una cifra destinata ad aumentare nonostante il settore rifletta la contrazione dei consumi.